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Ebbene sì, Tron non è né un Jedi, né un supereroe: tra un film e l’altro passano almeno quindici anni. Il primo, quello con il Bruce Boxleitner di Babylon 5, uscì nel 1982, lo stesso anno di E.T. e Blade Runner, e inevitabilmente è stato un po’ adombrato. Negli anni a seguire, tuttavia, è diventato un cult grazie a giocattoli e videogiochi che ne hanno alimentato l’interesse. I bambini di allora sono gli adulti di oggi che vanno a vedere un film sui videogiochi della loro infanzia, magari portandosi dietro i figli. La differenza è che i nostri genitori facevano un fioretto a portarci a vedere Tron, oggi piace a entrambe le generazioni. Certo, per reggere le due ore di Tron:Ares si ha bisogno di quella sospensione d’incredulità necessaria per immergersi in una storia-non-storia come questa, un po’ come ai comizi di Silvia Sardone.

Chi è questo Ares dal nome così altisonante? Si tratta di un sofisticato software creato dall’avido Julian Dillinger (Evan Peters) per varcare il confine tra mondo digitale (il “Grid” dell’universo Tron) e mondo reale. Nel mondo reale questi software possono camminare, correre, volare, ma solo per mezz’ora, dopodiché si polverizzano. L’informatica Eve Kim (Greta Lee) dell’azienda rivale, la ENCOM, è vicina a scoprire un codice che può “stabilizzare” la permanenza dei software nel mondo reale. Dillinger manda i suoi migliori guerrieri per inseguirla e rubarle il codice. Anche la mamma di Dillinger, la Gillian Anderson di X-Files sa che il figlio è uno stronzo, ma i genitori di oggi non hanno più l’autorevolezza di un tempo… Ares però non ci sta perché quando è entrato nei file personali di Eve Kim ha scoperto che la vita è bella.
Molto di quello che succede qui, sa di già visto, in Tron stesso, in Legacy (2010), in altri film sull’IA. Il tema creatore/creatura, la ribellione del robot, la ricerca di un artefatto che può cambiare il mondo o distruggerlo, eccetera. Non che sia un male assoluto, ma per buona parte del film si ha la sensazione che si stia camminando su binari già tracciati; è più evoluzione che rivoluzione. Esplosioni di luci, neon, scie, riflessi, tecnologia che sfida la gravità, Tron: Ares mescola digitale e urbano, trasformando in campo di sfida per le lightcycle le strade di Vancouver. Se poi ci aggiungiamo la colonna sonora dei Nine Inch Nails l’atmosfera regge. Soltanto che l’impressione di trovarsi in un grande videogame persiste, un po’ come nel caso del Superman di James Gunn. Tron: Ares non sfugge ai cliché, agli stilemi visti e rivisti (antagonista CEO cattivo, IA che inizia a “sentire”, tradimenti), che se non sei un fan accanito del genere rischiano di farti sbadigliare. E in certi momenti, il tono diventa didascalico se non banale tipo quando un personaggio fa monologo morale sull’etica digitale mentre dietro di lui tutto va in pezzi.
Uno dei problemi più evidenti di Tron: Ares è la totale assenza di una trama credibile. Non nel senso che ci si aspettasse realismo in un film dove il protagonista di un videogioco salta fuori dal gioco, ma perché la storia non riesce mai a stabilire una logica interna coerente. È come se il film avesse deciso di puntare quasi esclusivamente sull’estetica. L’intera vicenda ruota intorno ad Ares, programma digitale creato per un esperimento segreto che avrebbe dovuto ridefinire il rapporto tra uomo e macchina. Fin qui tutto bene. Ma nel momento in cui il film prova a spiegare come e perché un’entità virtuale possa essere “trasferita” nel mondo fisico, la narrazione si affloscia come un server senza corrente. Non c’è mai un’idea chiara di cosa questo passaggio implichi davvero, né di quali siano le regole che governano il confine tra i due mondi. Gli sceneggiatori buttano lì concetti pseudoscientifici come il “codice di stabilizzazione molecolare” ma tutto suona come un tentativo disperato di dare al tutto una parvenza di profondità tecnica.

Il personaggio di Ares si sposta da un contesto all’altro con una facilità che non trova giustificazione: un momento è un’entità confinata nel Grid, il minuto dopo è nel mondo reale, senza che nessuno si prenda la briga di spiegare come sia avvenuto il miracolo. Quando cerca di esplorare la propria “umanità”, la sceneggiatura si riduce a un collage di dialoghi banali e momenti di introspezione da manuale. Non c’è un vero conflitto interiore, solo il riflesso di qualcosa che avrebbe potuto esserci se qualcuno avesse dedicato più tempo alla scrittura invece che agli effetti speciali. Anche i rapporti tra i personaggi sembrano messi insieme con lo scotch. La relazione tra Ares e il suo creatore, Dillinger, è teoricamente il fulcro emotivo della storia, ma viene trattata come un pro forma: qualche sguardo torvo, una manciata di frasi filosofiche, e via verso l’ennesima corsa sulla lightcycle. Non c’è tensione, non c’è progressione. I due non sembrano nemmeno parlare la stessa lingua, e forse è proprio questo il punto: uno parla di etica e identità, l’altro parla di fatturato e potere. Solo che il film non sa cosa farsene di questo contrasto e lo lascia lì a galleggiare.
Il problema maggiore è che Tron: Ares non decide mai che tipo di storia vuole raccontare. È un film di fantascienza? È un thriller aziendale ambientato tra hacker e laboratori segreti? È un dramma esistenziale sulla coscienza artificiale? O è solo un videogioco con attori veri? La sensazione è che cerchi di essere tutto questo contemporaneamente, senza riuscire a essere davvero niente. Ogni volta che sembra avvicinarsi a un tema interessante, cambia direzione. Quando prova a riflettere sull’identità digitale e sul diritto di un’intelligenza artificiale a “vivere”, esplode tutto. Quando accenna a una critica del capitalismo tecnologico e del controllo dei dati, arriva il nemico e bisogna scappare. È come se i produttori avessero temuto che il pubblico potesse annoiarsi con troppa filosofia, ma non si siano accorti che l’alternativa — ovvero un’azione senza senso — è anche peggio.
La gestione del tempo narrativo è un altro disastro. Il film parte in quarta, rallenta senza motivo, poi accelera di nuovo nel finale, come se qualcuno avesse montato le scene con un dado a sei facce. Ci sono sottotrame abbozzate che spariscono nel nulla: un personaggio secondario sembra avere un ruolo cruciale, ma dopo tre scene scompare come se il film si fosse dimenticato di lui. Altre linee narrative si risolvono con spiegazioni verbali infilate all’ultimo minuto, tipo «Ah, sì, quello l’ha fatto il programma X», e tutto torna magicamente al suo posto. È la sceneggiatura del “non preoccuparti, funziona perché lo dico io”. In un contesto come Tron, dove l’universo è basato su regole artificiali, questo atteggiamento sarebbe anche perdonabile, ma solo se almeno le regole fossero chiare. Qui invece cambiano a seconda della necessità della scena. È la flessibilità narrativa spinta fino al nonsense.

Alla fine, la mancanza di una trama credibile non è solo un difetto tecnico, è un problema di identità. Tron: Ares vuole farci credere che dietro la sua facciata di luci e suoni ci sia una riflessione seria sul rapporto tra uomo e tecnologia, ma la sceneggiatura non ha la struttura per sostenerla. È come un videogioco senza motore fisico: puoi costruire mondi bellissimi, ma se non c’è una base solida, tutto resta sospeso nel vuoto. Il film confonde mistero con confusione, profondità con rumore, e simbolismo con sciatteria narrativa. Eppure, paradossalmente, continua a prendersi sul serio, come se stesse raccontando una storia di peso, mentre in realtà sta solo ballando tra cliché e incoerenze. Ci sono momenti in cui sembra di vedere due film diversi litigare per il controllo: quello ambizioso, che vuole dire qualcosa di importante sull’intelligenza artificiale e sulla creazione di vita digitale, e quello commerciale, che vuole solo far brillare i caschi e vendere action figure. Indovinate quale dei due vince?
In conclusione, la trama di Tron: Ares non è tanto incredibile quanto incredibilmente inconsistente. Funziona solo se non ci pensi troppo, se ti lasci trascinare dalle luci e dal suono e decidi che la logica non è un requisito fondamentale per godersi un film. È il classico caso in cui l’apparato tecnico e visivo è talmente potente da far dimenticare — almeno per un po’ — che sotto c’è una sceneggiatura che sembra scritta da un algoritmo in cerca d’ispirazione. Ma appena le luci si spengono, e la musica dei Nine Inch Nails smette di martellare, ti resta la sensazione che Tron: Ares sia un bellissimo guscio vuoto, un esercizio di stile che ha dimenticato la cosa più semplice: raccontare una storia degna di aver preso due ore del tuo tempo.