James Gunn ripropone Superman in una giostra multicolore
Il regista di Guardiani della Galassia James Gunn reinventa uno dei miti più resilienti del fumetto e del cinema supereroistico facendone non un reboot ma un caleidoscopico calderone di suoni e colori che, per funzionare, avrebbe bisogno di essere guardato sotto effetto di sostanze psicoattive. La trama non investe nelle trite e ritrite origini kryptoniane di Superman (David Corenswet) ma ci catapulta in medias res con la Terra già popolata da supereroi, che Gunn chiama “metaumani”, in pieno scontro. Non interessa chi siano o da dove vengano quelli che volano e sparano raggi verdi; ciò che sappiamo è che ci sono, e che il più potente di loro se la sta vedendo brutta con un essere umano che non è “meta” ma soltanto intelligente, ricco e spietato: Lex Luthor (Nicholas Hoult).
Il film parte con un Clark Kent già adulto, precario nella vita e nel lavoro, impreparato a gestire il classico problema da supereroe: l’essere troppo potente per vivere una vita normale e troppo umano per fregarsene. La novità è che Gunn vuole presentarci un Superman fragile, ferito, uno che spesso sbaglia e poi si pente. Che ha bisogno degli altri sia come supporto strategico che morale. C’è un arco classico di formazione e accettazione del proprio ruolo, declinato però in modo che la lotta non sia solo contro il male esterno, ma anche contro percezioni, pregiudizi sociali, aspettative, dubbi interiori. Un po’ troppa roba forse. Questo vorrebbe conferire al film un peso morale che va oltre il semplice scontro. Ma non vi aspettate un film intimista, perché Superman combatte contro soldati meccanici, mostri tipo Godzilla, carri armati, cloni, portali dimensionali e altri metaumani con poteri speciali. Sembra uno di quei videogiochi che oggi vanno a due euro, solo che quelli durano due minuti, questo invece dura due ore.

Come impatto visivo non c’è che dire. Qui Gunn tira fuori la saturazione. Basta con i toni grigi di Zack Snyder; qui il rosso è rosso e il blu è blu, e tutti i colori insieme sono sparati come un albero di Natale a led. La fotografia è ispirata alla miniserie a fumetti All-Star Superman edita da DeAgostini nel 2009, senza timore di sembrare troppo weird. Si privilegia l’uso di colori vividi e saturi fortemente contrastati, in opposizione alle versioni più cupe che hanno dominato negli ultimi anni. Portatevi gli occhiali da sole.
I personaggi? Corenswet non è il modello da copertina Henry Cavill. Ha una faccia da spot del Mulino Bianco, tale da rendere credibile un Superman fragilissimo e imperfetto. È lontanissimo dalla grazia e dalla finta ingenuità di Christopher Reeve ma è più credibile della tenebrosa malinconia di Cavill. Lois Lane (Rachel Brosnahan) ha il ruolo di interlocutrice critica, quella che fa domande scomode. Fuori da questo ruolo si mostra sorpresa per tutto quello che le succede intorno, cosa non facile se pensiamo che oggi gli attori recitano circondati da teli verdi e i mostri vengono aggiunti dopo. Lex Luthor (Nicholas Hoult) è forse uno dei personaggi più riusciti perché, pur sembrando più Steve Jobs che un villain da fumetto, è così reale da mettere davvero paura. È un uomo che odia e che ha i mezzi per trasformare il suo odio in vendetta, un po’ come gli attuali partiti politici. I personaggi secondari, i genitori adottivi, il cane, Green Lantern, Mr.Terrific, Hawkgirl e una Supergirl ubriaca servono per dare al film variabilità e respiro, anche se sembrano usciti dalla fauna aliena di Taika Waititi o da un calendario dell’avvento.

Il risultato è che il film diventa una sorta di commedia romantica travestita da cinecomic, con Clark e Lois che sembrano litigare e innamorarsi come in una screwball comedy anni ’30, solo che invece di un bicchiere di Martini c’è un grattacielo in fiamme e invece di una macchina in panne c’è un Godzilla che minaccia di distruggere Metropolis. Gunn si diverte a costruire questi contrasti, e in parte fa divertire anche il pubblico. Anche perché, ammettiamolo, dopo decenni di supereroi cupi, tormentati, “dark” fino al midollo, un Superman che inciampa e si prende in giro da solo è quasi una ventata d’aria fresca. Qui non c’è la grandeur tragica, non c’è l’eroe come Cristo alieno, non c’è il feticismo per i muscoli e per i ralenti infiniti: c’è piuttosto il gusto del gioco, il piacere di raccontare un mito popolare con la leggerezza di chi sa che i supereroi non devono insegnarci teologia, ma regalarci due ore sulla giostra.
Solo che così il mito è al suo epilogo. Superman di James Gunn è un film che si prende gioco del mito, che ride di sé e allo stesso tempo ci fa credere ancora nell’idea che un uomo possa volare. È in parte una presa in giro affettuosa che restituisce al personaggio un po’ della leggerezza che aveva perduto, ma così facendo lo uccide più di Doomsday. Del resto il mito di Superman ha una sua evoluzione che è quella degli Stati Uniti, la cui democrazia non se la passa per niente bene. Il paese che negli anni ’50 aveva bisogno di eroi senza macchia, guide inossidabili e contrapposte al male assoluto, oggi si ritrova con personaggi che hanno perso la loro innocenza, nei quali la dicotomia bene/male è piuttosto confusa e il dissidio interiore viene condiviso con i villain di turno. Perché gli eroi puri non esistono più.