di Concita De Gregorio, Feltrinelli 2025
La lettura di Di madre in figlia di Concita De Gregorio si offre, fin dalle prime pagine, come un’esperienza duplice: da un lato la testimonianza di una genealogia intima, di una linea di trasmissione affettiva e simbolica che attraversa generazioni di donne; dall’altro, un esercizio di saggistica narrativa che scava nelle pieghe della memoria e ne restituisce la complessità, senza indulgere né al sentimentalismo né alla freddezza documentaria. Ciò che colpisce, immediatamente, è l’ibridazione dei registri: De Gregorio adotta un linguaggio che oscilla tra il lirico e il cronachistico, tra la confessione e la riflessione. Non si tratta qui di romanzo in senso stretto, bensì di una scrittura che ha assimilato la lezione della narratività romanzesca e l’ha riversata in un discorso saggistico.
Il nucleo tematico è, come suggerisce il titolo, la trasmissione. Una trasmissione che non è mai lineare, né garantita, ma che si costruisce attraverso rotture, silenzi, omissioni, talvolta lacerazioni. La madre e la figlia, in questo libro, non si rispecchiano l’una nell’altra come in una banale metafora speculare; piuttosto, si cercano, si smarriscono, si ritrovano in una costellazione di gesti e parole che sopravvivono al tempo. È qui che emerge l’eco antropologica della scrittura di De Gregorio: se Lévi-Strauss aveva mostrato come i miti si trasmettano di generazione in generazione rielaborandosi continuamente, lo stesso accade per i racconti familiari che costituiscono l’ossatura di questo libro. Essi non sono mai ripetizione meccanica, ma variazione creativa, in cui l’elemento originario si conserva solo nella misura in cui viene tradito, adattato, rifunzionalizzato.

Il discorso di De Gregorio si innesta dunque in una tradizione di riflessione sulla memoria femminile che potremmo rintracciare, in Italia, in autrici come Natalia Ginzburg e Lalla Romano, ma che si apre anche a suggestioni internazionali: basti pensare alla tensione testimoniale di Marguerite Duras o alla capacità di trasformare la memoria personale in memoria collettiva che caratterizza autrici latinoamericane come Isabel Allende. In tutti questi casi, la voce della donna non si limita a raccontare il proprio vissuto, ma si fa tramite di una coscienza più ampia, in cui la soggettività singolare diventa luogo di condensazione di esperienze storiche e culturali più generali. De Gregorio sembra perfettamente consapevole di questo statuto e lo rivendica con forza, senza mai cadere però nell’ideologia o nel didascalismo.
La scrittura, in Di madre in figlia, appare come un dispositivo di sopravvivenza. L’atto stesso del narrare costituisce un tentativo di trattenere ciò che il tempo inevitabilmente disperderebbe. Ma la narrazione non è mai pura conservazione: è sempre un atto creativo, un atto che reinventa ciò che salva. In questo senso, il libro si situa in una prospettiva che potremmo definire semiotica: ogni ricordo, ogni testimonianza, ogni aneddoto familiare è un segno, e come tale non rinvia a un significato unico e originario, bensì a una costellazione di possibili interpretazioni. Eco stesso, nella sua teoria dell’opera aperta, ha insistito su questa indeterminatezza costitutiva del segno e sull’inevitabile pluralità di letture che ogni testo comporta. De Gregorio, con la sua scrittura, non fa che confermare questa dinamica: non ci consegna un manuale di memorie chiuse e definitive, ma ci invita a entrare in un campo di risonanze in cui ogni lettore è chiamato a ricostruire la propria genealogia interiore.
Il rapporto madre-figlia, lungi dall’essere confinato a una dimensione privata, si trasfigura in allegoria del rapporto tra le generazioni in generale. La madre rappresenta l’origine, ma un’origine che non è mai pura, sempre segnata dal peso della storia e dalle convenzioni sociali del proprio tempo; la figlia, a sua volta, incarna il futuro, ma un futuro che non può darsi senza il confronto, talvolta doloroso, con quell’origine. È il medesimo meccanismo che vediamo operare nelle dinamiche culturali: ogni nuova generazione si appropria dell’eredità della precedente, ma lo fa tradendola, modificandola, ridefinendola. Così, la relazione tra madre e figlia diventa paradigma di quella che il critico letterario americano Harold Bloom, parlando della poesia, definiva anxiety of influence: un’ansia di influenza che non è solo conflitto, ma anche energia generativa, possibilità di nuove creazioni.
Si potrebbe, in questo senso, leggere Di madre in figlia come un contributo alla costruzione di un’archeologia della memoria femminile. Il libro sembra voler scavare sotto la superficie degli aneddoti quotidiani per rintracciare ciò che rimane, ciò che persiste al di là della contingenza. E in questo scavo si delinea una mappa fatta di silenzi e di parole, di presenze e di assenze, in cui il non detto conta quanto il detto. Qui si coglie la lezione della psicoanalisi, non tanto come disciplina esplicitamente citata, quanto come sensibilità diffusa: ciò che non viene detto, ciò che resta implicito, non è meno significativo di ciò che viene espresso apertamente. Anzi, talvolta è proprio il non detto a costituire il vero nucleo della trasmissione affettiva.
Eppure, sarebbe riduttivo considerare questo libro solo come un esercizio di memoria o come un ritratto generazionale. Esso possiede anche un valore politico, benché mai proclamato in termini programmatici. Dare voce alle madri e alle figlie significa dare visibilità a una dimensione della vita che troppo spesso è rimasta ai margini del discorso pubblico. La scelta di De Gregorio non è dunque neutrale: è un atto di resistenza culturale, un modo per affermare che la storia delle donne non è un’appendice della storia generale, ma ne costituisce una parte essenziale, senza la quale la comprensione del presente resta mutila. In questo senso, Di madre in figlia si iscrive nella linea del femminismo letterario, non tanto perché adotti toni militanti, quanto perché fa parlare la vita delle donne con la dignità e la profondità che merita.
Lo stile della De Gregorio è volutamente calibrato: non rinuncia alla chiarezza comunicativa, ma allo stesso tempo non teme di aprirsi a momenti di densità lirica. Si avverte un gusto per l’immagine, per la metafora, che non è mai mero ornamento retorico, ma strumento di conoscenza. Ogni immagine, ogni metafora, sembra infatti servire a illuminare un aspetto della condizione femminile, a rendere percepibile ciò che sfuggirebbe a una descrizione meramente denotativa. In definitiva, Di madre in figlia si presenta come un’opera stratificata, in cui la memoria personale si intreccia con la memoria collettiva, la testimonianza privata con la riflessione antropologica, la scrittura narrativa con l’analisi quasi filosofica.
«Potevi anche decidere di non avermi. Questo te lo riconosco. Hai avuto coraggio, eri una bambina. Hai avuto cuore. Dunque io sono qui, e Adelaide è qui. Adesso voi due. La devo portare via da te, madre. Ti darà rabbia e pena, pazienza. Passerà, tutto passa»