Nel 2001 usciva un piccolo gioiello di film, Disperato aprile di Walter Salles
Il lucido e poetico film Disperato aprile di Walter Salles, uscito nel 2001, è liberamente tratto dal romanzo Aprile spezzato dello scrittore Ismail Kadaré. Il romanzo originale è ambientato nel nord dell’Albania, in un tempo imprecisato ma certamente antecedente al regime comunista, ed espone il codice del Kanun, quello della faida, dell’onore e delle leggi non scritte che regolano la vendetta. Nel passaggio al film, Salles trasferisce l’ambientazione nel sertão brasiliano dell’inizio del Novecento, mantenendo le dinamiche fondamentali del testo di Kadaré ma adattandole a un contesto molto diverso nei climi, nella storia, nelle tradizioni, nel paesaggio, nei riferimenti culturali. Questo spostamento geografico e culturale è una delle scelte più radicali, e insieme più problematiche, dell’adattamento, ma anche una delle sue potenzialità maggiori.
Al centro della vicenda c’è Tonho (nel romanzo originario Gjergj), un giovane che si trova costretto, per rispettare la tradizione familiare, a vendicare la morte del fratello maggiore. L’omicidio attiva una catena: da quel momento Tonho sa che la sua vita è segnata, che sarà a sua volta vittima della vendetta (la famiglia rivale ha il diritto di eliminare lui, dopo un periodo di tregua di un mese). Questa tensione tra obbligo e desiderio, tra la volontà del singolo e la legge della tradizione, è il cuore tragico che pervade sia il romanzo che il film. Il protagonista è un Rodrigo Santoro ancora semisconosciuto, sei anni prima del 300 di Zack Snyder che lo farà conoscere in tutto il mondo.

Nel romanzo Kadaré costruisce un’atmosfera dominante: ovattata, ma implacabile; il destino già scritto. Gjergj, pur tormentato, accetta il suo compito, ma vive ogni giorno della tregua con la coscienza del limitato tempo a sua disposizione, fatto di illusioni, ricordi, dubbi, fantasie. In Disperato aprile, Tonho attraversa una situazione analoga: esegue la vendetta, ma è cosciente che da quel momento non potrà più sfuggire al suo destino. La morte è in agguato; la sua libertà è una tregua condizionata. Perché la parola “aprile” in entrambi i titoli? È il periodo di un mese che si ha a disposizione per attuare o subire la vendetta e quel mese particolare, che dovrebbe rappresentare la rinascita della vita, è qui un appuntamento con la morte.
L’Albania montana del romanzo è un luogo del tutto peculiare, dove il codice d’onore, la vendetta, la besa, la paura del gelo, la durezza del paesaggio, le montagne tutte, l’isolamento, tutto ciò rende le relazioni umane severe, cicliche, gravate da una storia antica. Nel portare la vicenda nel sertão brasiliano, Salles rinuncia alla specificità del Kanun ma conserva o rigenera elementi analoghi: la natura aspra, la legge antica, la comunità rurale, la povertà, la durezza della terra, la distanza dallo Stato centrale, un tempo storico apparentemente arretrato, in cui la legge ufficiale non pervade ogni angolo, e dove i codici locali, le faide, le tradizioni, dominano.
Il film riesce a rendere visivamente il senso di isolamento: i paesaggi, i campi secchi, la polvere, la canna da zucchero, i tramonti infuocati, quel cielo enorme sopra campi sterminati. Questa spazialità funziona molto bene come equivalente cinematografico del paesaggio alpino del romanzo. Nel romanzo Kadaré descrive con precisione il paesaggio, la neve, le foreste, la lontananza, il gelo, come elementi che accentuano la precarietà della vita. Nel film la luce, la polvere, il sole e il vento fanno lo stesso lavoro: rendono il corpo e l’azione sempre in bilico, sempre soggetti alle forze naturali.

Disperato aprile conserva i grandi temi del romanzo: onore, vendetta, destino, amore, il rapporto fra le generazioni, la morte. L’eroe tragico di Kadaré, Gjergj, è tormentato, non è un assassino puro, è vittima anche lui del sistema che lo ha cresciuto, delle aspettative dell’ “essere uomo” agli occhi della famiglia, del peso delle tradizioni. Tonho nel film ha la stessa scissione: è obbligato dal padre, dall’onore, ma vorrebbe sottrarsi. Il film esplora questa ambivalenza; la tensione fra ciò che è imposto e ciò che il protagonista desidera. Una frase che emerge nel film, nei gesti, negli sguardi, nei dialoghi, è quella del desiderio di evasione—non tanto fisica quanto morale, di evitare che la tradizione diventi condanna. Questa lotta interiore è ciò che permea il film, che lo rende tragico ma non arido.
L’amicizia e l’amore sono usati come elementi carezzevoli in un mondo altrimenti rigidissimo: la figura della circense Clara (Flavia Marco Antonio) ha in sé quella qualità quasi mitica, come nel romanzo la coppia dello scrittore e la moglie. Nel romanzo infatti Gjergj incontra uno scrittore e la sua consorte durante il viaggio tra montagne, e in loro si riflette la possibilità di un mondo “altro”, di un luogo dove le tradizioni non sono assolute o dove la vita può essere vista col distacco, ma pure con empatia. In Disperato aprile, Clara e Salustiano (l’artista del circo) sono figure esterne al conflitto feudale: arrivano da un mondo che ha dimensioni più libere, forse più sensibili, più capaci di sogno. Essi servono nel film come specchio: riflettono l’alternativa, ciò che Tonho potrebbe desiderare: anelare a un’esistenza non determinata dalla vendetta. Ma, come nel romanzo, anche queste presenze non bastano a cambiare radicalmente la traiettoria della storia: il destino resta potente.
Un aspetto che merita riflessione è il ruolo del personaggio del Piccolo (Pacu nel film). Egli è la misura del futuro, del possibile cambiamento. In Aprile spezzato è l’innocenza relativa, la capacità di concepire diversamente la realtà. Nel film Pacu assume questo ruolo con efficacia: nei suoi gesti, nei suoi sogni, nel suo rapporto col fratello, con la vita quotidiana, con la scoperta del mondo esterno (il circo, l’arte, la musica). Egli è il riferimento morale, emotivo, per lo spettatore: rappresenta ciò che potrebbe essere, ciò che ancora non è stato consumato dalla catena della vendetta. Questo elemento è uno dei punti che il film mantiene con forza dal romanzo.

L’usanza della vendetta è uno dei paradossi più profondi della storia umana. È un meccanismo arcaico che pretende di restaurare una giustizia ferita attraverso la reiterazione del male e così facendo perpetua l’ingiustizia. Quando non esiste autorità comune, l’uomo costruisce un suo codice morale interno e lo affida al sangue. Così la vendetta si fa rito, tradizione e non c’è più distinzione tra giusto e ingiusto. È il tentativo di organizzare la morale fuori da un sistema di diritto, ma fallimentare perché si fonda sul principio della negazione della vita altrui. E perché la vendetta possa realizzarsi c’è bisogno della disumanizzazione dell’altro che diventa non più un uomo ma un colpevole per appartenenza. Così la vendetta, negando l’individualità, la singolarità, toglie la responsabilità etica.
Le società che hanno conosciuto la faida – dall’Albania del Kanun al Sud Italia, dal Medio Oriente ai Balcani – portano nei loro codici morali questa tensione tra la legge del sangue e la legge della parola. L’una è immediata, passionale, vincolante; l’altra è mediata, civile, universale. La prima parla di appartenenza; la seconda, di convivenza. Passare dalla vendetta alla giustizia è, in fondo, il passaggio dall’appartenenza all’umanità. Solo il perdono spezza la catena. Ma il perdono non è oblio: è memoria trasfigurata. Il perdono non cancella il male, lo riconosce e decide di non prolungarlo. È un atto di libertà, non di debolezza. Nella logica della faida, l’uomo è schiavo del passato; nella logica del perdono, è libero nel presente.
E tuttavia, anche oggi, la mentalità della faida sopravvive in forme nuove: nel tribalismo politico, nei conflitti identitari, nella polarizzazione delle idee. Non serve un fucile per mantenere una faida: basta la convinzione che “l’altro” sia diverso, che non possa essere perdonato. In questo senso, la faida non è un retaggio del passato ma una tentazione permanente della modernità. Ogni volta che il dialogo cede alla rivalsa, ogni volta che la giustizia diventa vendetta di parte, ogni volta che la memoria si fa arma, la logica della faida ritorna.
Forse per questo, l’antidoto non è solo la legge, ma la compassione. La legge organizza, ma è la compassione che umanizza. La legge dice: «Non uccidere perché sarai punito». La compassione dice: «Non uccidere perché l’altro è come te e soffre come te». E in questa differenza sottile si misura il passaggio dalla civiltà all’umanità.
La faida è dunque una ferita ontologica: ci ricorda che l’uomo non tollera l’ingiustizia, ma che può perdersi cercando di curarla con lo stesso veleno che l’ha generata. È il lato oscuro della sete di giustizia, la sua caricatura tragica. Capirla significa riconoscere in noi la stessa tensione: il bisogno di equilibrio e il rischio di confondere la giustizia con la vendetta. Solo quando una comunità riesce a distinguere il dolore dal rancore, il diritto dalla reazione, l’uomo dall’appartenenza, allora la faida muore. Ma finché l’offesa sarà più forte della parola, e l’onore più forte della pietà, la faida continuerà a respirare dentro di noi.
Ringraziamo quindi l’arte per averci donato questo piccolo gioiello. Chi apprezza il cinema che cerca di unire la bellezza visiva con la riflessione morale, troverà in Disperato aprile molti motivi per restare coinvolto. Chi ha letto Aprile spezzato non potrà non notare la distanza tra la complessità interiore del romanzo e la condensazione inevitabile del film, ma questa distanza non è del tutto negativa: è il prezzo (o il compromesso) di ogni trasposizione tra media, e in questo caso il compromesso è gestito con sensibilità e talento.