Un film sulla morte e sulla vita, su come anche il dolore possa generare tenerezza e protezione. Lo racconta Paolo Virzì in Cinque Secondi, con Valerio Mastandrea, Valeria Bruni Tedeschi, Galatea Bellugi, Ilaria Spada, Anna Ferraioli Ravel, nelle sale dal 30 ottobre. Un film, come spiega l’autore, che inizia in modo misterioso, per rivelare gradualmente la sua trama dolorosa, poi accendersi in un conflitto vivace e buffo e chiudere con un sentimento di fiducia.
Al centro della storia c’è Adriano, un uomo scontroso dall’aria trascurata che vive solo nelle stalle ristrutturate di una dimora disabitata e in rovina, evitando il contatto con tutti. Quando si accorge che nella villa si è stabilita abusivamente una comunità di ragazze e ragazzi per curare quella campagna abbandonata, si innervosisce e vorrebbe cacciarli. Tra loro c’è Matilde, che da bambina lavorava la vigna con il nonno Conte Guelfo Guelfi. Anche loro sono incuriositi da quel misantropo dal passato misterioso. Pian piano il conflitto con quella comunità si trasforma in convivenza. E lui si troverà ad accudire nel suo modo brusco la contessina, che è incinta.
Non sbaglia Virzì nella scelta del cast per questa sua sedicesima pellicola che sottolinea i brucianti fallimenti degli adulti, riscattati dalla speranza delle nuove generazioni di far rinascere un mondo migliore dalle ceneri. Un perfetto Mastandrea tormentato dai fantasmi di una sconfitta paternità; una Valeria Bruni Tedeschi che non smentisce la sua sempre efficace rappresentazione di donne sopra le righe, apparentemente svagate. Più che promettente la debuttante Galatea Bellugi, spontaneamente solare negli scomodi panni della attualizzata fricchettona. Alleggerisce il taglio claustrofobico, dolce-amaro del film, la sempre ottima penna di Francesco Bruni e le suggestive musiche di Carlo Virzì.
Come le vigne vecchie se ben curate possono ridare buon vino, ci può essere una rinascita. È questa la metafora con cui il regista scardina la storia. «È una vicenda che si dipana piano piano e in modo misterioso con uno scorbutico di cui all’inizio non sappiamo la storia – spiega Virzì -. Racconta di come questa creatura così apparentemente malandata si riattivi, all’inizio in forma nevrotica, ansiosa, perché gli danno fastidio gli altri, perché non sopporta le intrusioni, perché vorrebbe starsene da solo, ma poi questo incontro genera relazioni, e probabilmente anche una forma di riparazione. Il tema della paternità anima il duello tra Adriano e Matilde. Il reciproco fastidio diventa alleanza, una tutela per lei, una rinascita per lui. Intorno c’è la natura che ci assomiglia: un vigneto selvatico che, se curato, produce un vino che mette euforia.»
Per Mastandrea è stato come fare «un giro completo dentro la propria interiorità, dentro la propria esistenza. Era un personaggio da condire di tutto, insomma da attore faccio pure fatica a dirlo ma è uno dei personaggi più belli e più complessi da affrontare, non vedevo l’ora. Quando ho ricevuto il soggetto di questo film – racconta l’attore – nonostante fossero solo quindici pagine, ho subito sentito una forte spinta emotiva, mi sono commosso, perché ho capito che era un ruolo malinconico, buio che avrei poi potuto contaminare con leggerezza. Un ruolo molto vicino a me, che toccava delle mie corde.»