Passato di recente in concorso a Cannes (quale sospirata audacia!), l’ultima fatica di quel geniaccio ribelle che risponde al nome di Robert Rodriguez ha portato uno scompiglio così glamour che anche i non-fan si sono messi in fila nella Costa Azzurra per assistere a cotanta parata di star per un solo film. Tratto da un fumetto cult di Frank Miller, nume ispiratore che co-firma la regia (ma a noi piace credere che abbia solo supervisionato alle riprese), Sin City è l’apoteosi della violenza ultra-gore a mero fine di spettacolo, niente di più. Ma non è poco, in questo periodo in cui le major (c’è dietro la Miramax) paiono produrre sotto vuoto spinto. Rodriguez, infatti, riesce sovente a trasformare la pellicola in pagine di fumetto, e non viceversa, il che aiuta a comprendere meglio la fulgida idea sottesa a tutto il film, ovvero cercare di far capire al pubblico quanto ipocrita e mendace possa essere rappresentare “per davvero” l’inflazionata poetica violenta dei fumetti al cinema, se al timone non c’è un tipo cazzuto che conosca il genere e lo ami. Solo Sam Raimi, col suo Spider-Man, c’era finora riuscito. Così Rodriguez, firmando un impecabile pout-pourri a incrocio di micro-storie di straordinaria follia urbana in un fiammeggiante bianco e nero (in cui, però, si stagliano qua e là figure o oggetti dai contorni colorati accesi, come se cercassero di invadere lo schermo di speranza), assolda un team di attori da fare invidia al numero più prestigioso di “Vanity Fair” (ne esce bene anche l’odiosetta Brittany Murphy), rispolvera un Bruce Willis vendicatore dal cuore d’oro e un Mickey Rourke dal volto sfigurato (scelta stracult!, dato che nella realtà l’ex fascinoso seduttore di 9 settimane e ½ è una maschera di chirurgia estetica bisturata male), nonché un Benicio Del Toro dal naso aquilino che “perde” letteralmente la testa per la sua donna nell’episodio forse più dissacrante e pulp.

E poi, ancora, tra i tanti più o meno emergenti, Rosario Dawson nei panni fetish di una prostituta capo-branco all’arma bianca, Clive Owen che in ogni scena sembra dire “Chiamatemi Bond!”, Jessica Alba così sexy da rimanere impressa anche solo per i dieci minuti in cui appare muoversi fluida, il solito, gigantesco Michael Madsen, e Josh Hartnett latin-lover in cerca di sangue che apre e chiude questa fe(a)stosa spirale di vendette e omicidi nella sporca Città del Peccato (anzi, dei Peccatori), come a voler dire che anche dall’amore che può nascerci vicino ne può derivare la nostra fine, e che, in fondo, non c’è redenzione per nessuno. Eccola, la morale, allora c’è… La capiamo, forse, solo alla fine, dopo divertenti e logorroiche orge di sangue e rabbia, in cui frecce trapassano cervelli ancora parlanti, genitali esplodono, arti saltano e zampillano, lungo 120 minuti a tratti così insistiti da tirare il gioco (e non lo scherzo) un po’ per le lunghe. Ma l’estetica iperrealista, sudata e visionaria di Rodriguez, a tratti carnale, primordiale, quasi erotica (non a caso, forse, nei titoli di coda viene ringraziato Hugo Pratt), pur pagando più di un debito a suo “fratello” Tarantino, che si dice si sia divertito a girare una sequenza al soldo di 1 solo euro, da sola vale la visione di questo film. Da cui, volenti o nolenti, si esce un po’ storditi, o, a seconda, dannatamente intrattenuti. Sarebbe bello se, sulla Croisette, qualcuno si ricordasse di assegnargli un premio…

di Alessio Sperati