«Ho letto il libro di Jhumpa Lahiri quasi per caso durante un viaggio in aereo. Stavo vivendo un momento molto triste della mia vita. Avevo perso una persona a me molto cara, quasi una seconda madre, che avevo seppellito in un luogo lontano anni luce dalla sua terra d’origine e dalla sua cultura. In quel preciso istante la storia deve avermi colpito profondamente proprio per questo motivo». Mira Nair (Leone d’Oro al Festival di Venezia nel 2001 con Monsoon Wedding), dopo il rifacimento cinematografico di un classico della letteratura inglese come Vanity Fair, torna ad una storia di chiara provenienza indiana (The Namesake in uscita in Italia in primavera), giocando con uno stile sempre in bilico tra Hollywood e Bollywood. Attraverso la narrazione della quieta quotidianità di una giovane coppia indiana trasferitasi a New York negli anni Settanta, mette in evidenza luci ed ombre di un processo d’emigrazione che nasconde in sé solitudine, dispersione e timore di perdere la propria identità culturale. Accanto alla sceneggiatrice Sooni Taraporevela la Nair (vissuta in India e trasferitasi in America per studiare ad Harvard) ha arricchito le immagini con lo stesso sentimento di disorientamento che ha caratterizzato i suoi primi anni statunitensi.

Traendo gran parte dell’ispirazione dalla letteratura del Commonwealth, che a detta della stessa regista «Rende la vita molto più semplice a noi registi», The Namesake si arricchisce di una intensità emotiva capace di trasformare una saga familiare in un’ esperienza umana capace di utilizzare la sua non eccezionalità come lente d’ingrandimento emozionale. Servendosi di un pudore e di un senso del riservo tipicamente indiano, la Nair costruisce soprattutto un ponte di continuità tra due mondi agli antipodi, riuscendo a narrare due luoghi come se fossero uno solo, evidenziando similitudini invisibili a molti. L’intensità visiva raggiunge i massimi livelli quando il fiume Hudson confluisce immaginariamente le sue acque in quelle del Gange, mentre ogni minuto della cerimonia funebre diviene fondamentale per comprendere due mondi che mai come in quei momenti si osservano nelle loro contrapposizioni. «Mentre giravo sapevo cosa volessi ottenere. Il mio scopo era quello di raccontare due città, Calcutta e New York come se fossero unite da un filo invisibile. Ero consapevole dei loro punti in comune come la confusione, i ponti, i graffiti e le varie risonanze. Avevo intenzione di mostrare come è possibile vivere a cavallo di due realtà diverse», racconta la regista.

Kal Penn, Tabu ed Irrfan Khan con le loro interpretazioni dolcemente naturali e mai enfatiche determinano il ritmo di una vicenda il cui scopo è quello di non dimenticare il punto di partenza e le origini, sentendo in qualche modo il proprio destino come unione indissolubile con chi ci ha generato. Considerando le difficoltà che solitamente s’incontrano nell’adattare un romanzo al grande schermo, bisogna riconoscere a Sooni Taraporevela una particolare sensibilità nell’aver trattato con cautela una materia particolarmente ostica. Il romanzo omonimo di Jhumpa Lahiri non ha una vera e propria trama od uno svolgimento che segue una evoluzione finale. Si tratta di una storia interiore che non procede lungo schemi classici, ma si lascia andare ad una struttura non convenzionale. Alla realizzazione cinematografica va il merito di aver seguito questo andamento narrativo, rispettando lo spirito che ha animato ogni pagina del romanzo. Ma al di là di qualsiasi riflessione etnica e culturale The Namesake segna quasi definitivamente la grande evoluzione del cinema indiano. «Bollywood è una realtà forte che esiste dal molti anni – conclude Mira Nair – il problema era dell’Occidente che fino a cinque anni fa era praticamente all’oscuro della nostra produzione. Inoltre in India mi è capitato di osservare più donne nei posti di potere all’interno di questa industria rispetto all’ambiente hollywoodiano di stampo più maschile».

di Tiziana Morganti