di Antonio Manzini, Piemme 2025
Quando si ripubblica un romanzo d’esordio, andato fuori catalogo, come Sangue marcio, la ragione non può essere soltanto nostalgia o mera operazione commerciale: dietro a questa scelta c’è la convinzione che il testo abbia qualcosa da dire ancora, che la sua voce mantenga freschezza e forza, che il dolore, la paura, il mistero che abita le sue pagine non siano stati consumati dal tempo. L’ha avuto tra le mani Niccolò Ammaniti e se n’è innamorato, tanto da suggerirlo a Martina Donati del Gruppo Mondadori. Ed ecco nascere questa nuova edizione dove Piemme ha ristampato l’opera di Antonio Manzini con una prefazione inedita che le dona un senso di rinascita non soltanto di un libro, ma di un’autorialità che, pur nelle sue prime fasi, già presentava i segni distintivi che Manzini avrebbe poi affinato.

Pietro e Massimo sono due bambini privilegiati. La loro è una famiglia facoltosa e hanno tutto quello che si può desiderare: una villa con piscina, un campo da tennis privato, i primi videogiochi. Un’infanzia felice, sospesa in un sogno borghese. Finché, un giorno d’autunno del 1976, il mondo crolla. La polizia irrompe in casa e il padre viene arrestato. I giornali, pochi giorni dopo, lo ribattezzeranno “il mostro delle Cinque Terre”. Quasi trent’anni più tardi, i due fratelli non potrebbero essere più diversi. Pietro è cresciuto in un istituto a Torino ed è diventato un cronista di nera. Massimo, affidato a uno zio, è un commissario di polizia. A unirli di nuovo è una scia di delitti, firmati da un serial killer spietato. Il tempo li ha cambiati. Massimo, un ragazzino impulsivo che metteva tutti in riga con il suo motto «Vatti a nascondere in Tibet» oggi è un uomo svuotato, con troppe ombre e troppi Martini in corpo. Pietro ha un carattere introverso, incapace di lasciarsi accostare dagli altri. Ma il passato non si dimentica. E così, mentre il killer continua a colpire, i due fratelli si riavvicinano, tanto da ritrovarsi ad affrontare una resa dei conti, indietro fino al giorno in cui è crollato il mondo.
Il romanzo gioca dunque su due livelli: il primo è quello del giallo, del thriller, della caccia a un serial killer che sembra sfuggire a ogni logica ordinaria; il secondo è più profondo, più oscuro, ed è il livello della memoria, del trauma, della colpa, dell’identità lacerata. Manzini non si limita a costruire delitti; costruisce ferite. E quelle ferite non guariscono con la soluzione del caso, piuttosto si rinnovano nella tensione tra fratelli, nelle ombre che ciascuno porta addosso, nella verità che è più dolorosa se diventa evidente.
Il personaggio di Massimo è in modo particolare emblema di questa divisione interiore. Cresciuto lontano dal fratello in una famiglia allargata (con lo zio), immerso nella giustizia ma anche nei difetti umani — solitudine, alcol, rimpianto — Massimo incarna la ricerca del controllo che combatte con il caos interiore. È commissario di polizia, ma è anche un uomo che deve fare i conti con ciò che gli è stato tolto, con ciò che non sa, con i fantasmi del passato. Pietro dall’altro lato vive nell’ombra: cronista di nera, un tipo che osserva, che segue le tracce degli altri, ma che fatica a emergere, a superare la distanza fra sé e il mondo. È un introverso, un sopravvissuto. Il loro rapporto carico di rimpianti è il cuore emotivo del romanzo. Senza questa dualità, il giallo resterebbe solo tensione: con essa, diventa anche confessione.
Lo stile di Manzini in Sangue marcio è in alcuni punti greve, in altri vivido, ma pur sempre teso: lavora molto su sensazioni fisiche, su spazi, su odori, su presenze che si percepiscono prima che vedersi. Ci sono descrizioni crude, ci sono immagini che restano impresse per la loro brutalità, per la disarmonia che creano – come se la bellezza iniziale della villa, dei giochi, dell’infanzia fosse già contaminata dall’ombra nascosta sotto il lusso. Questa contaminazione estetica è uno dei motivi per cui il romanzo funziona: il contrasto fra quello che ci si aspetta come normale e ciò che normale proprio non è, fra il quieto tepore del privilegio e la ferocia sottostante.
La struttura narrativa alterna i punti di vista, ma senza perdere mai il centro: non è un libro che punta a sorprese solo fini a se stesse, bensì a costruire una progressione nella quale l’orrore interiore, la vergogna, l’incomprensione si affollano fino a esplodere. Non tutti i capitoli scorrono allo stesso ritmo: certi momenti rallentano, indugiano nel ricordo, nella memoria sofferente; altri accelerano, nelle indagini, nel confronto con il crimine. Questa alternanza, se ben bilanciata, è anche l’unico punto in cui forse si percepisce che l’esordio non ha ancora la mano matura quanto alcune sue opere seguenti: certe descrizioni si prolungano troppo, certi raccordi narrativi esitano, ma è un prezzo comparativamente piccolo rispetto a quanto di buono il libro offra.
Il modo in cui il serial killer è costruito, l’orrore delle sue azioni, non è gratuito né spettacolare: è funzionale all’atmosfera di turbamento che Manzini vuole instillare. Non è la visita dell’abominevole fine a se stessa, ma lo specchio in cui si riflettono i disagi, le mancanze, le ossessioni dei protagonisti e più in generale, dell’umano che tende a nascondere le proprie ferite. Il romanzo obbliga il lettore a guardare dentro l’orrore, ma non come spettatore distante: come chi potrebbe benissimo essere, in un modo o nell’altro, uno che osserva, che tace, che si difende con la menzogna che “non succederebbe a me”.
Un elemento che mi ha colpito è la capacità del libro di evocare un senso di tempo perduto: gli anni 70 che si trovano all’inizio non sono solo scenografia, ma risonanza, eco di un’epoca che si credeva ancora innocente, che non immaginava fino in fondo il male che poteva nascondersi dietro l’apparenza. Quel passato non è remoto: pesa, si infiltra, condiziona, ed è una sfera da cui non si esce liberi. Manzini lo sa: non offre consolazione, non regala redenzione facile, non propone che le cicatrici possano essere ben occultate ma non percepite. Ogni passo verso la verità è anche un passo verso la perdita, verso la consapevolezza che certe ferite non si rimarginano mai.