Notevole l’horror tutto italiano di Paolo Strippoli
La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli è un film che scuote, che lascia un’impronta, non solo per l’inquietudine che dissemina ma per la sua limpidezza morale, per il suo coraggio tematico. Non è mero esercizio del brivido, che comunque Strippoli esercita con una certa disinvoltura, ma piuttosto una meditazione sulla sofferenza, sull’illusione delle scorciatoie psicologiche, su di una piccola comunità che nasconde le sue crepe sotto al tappeto e, soprattutto, sulle mille difficoltà dell’età adolescenziale. C’è tanto ne La valle dei sorrisi per relegarlo frettolosamente in un divertissement di genere.
La vicenda si svolge a Remis, piccolo paese alpino incastonato tra picchi isolati e dotato di una bellezza severa, perfetta per un horror che cerca un’inquietudine che ribolle sotto la superficie. Sergio Rossetti (Michele Riondino), ex campione nazionale di judo e insegnante di educazione fisica, si trasferisce in questo luogo con la speranza di ritrovare un equilibrio dopo un lutto che lo ossessiona. Remis, invece, appare sin dall’inizio come un rifugio surreale: gli abitanti sembrano accomunati da una serenità artificiosa. Ma non è tutto ciò che sembra. Dietro quell’equilibrio si cela un sinistro rituale: la comunità si riunisce per abbracciare Matteo Corbin (Giulio Feltri), adolescente silenzioso, quasi “santo” nella sua funzione, capace con il suo abbraccio di assorbire come una spugna il dolore altrui. Un dolore che non scompare dalla memoria, ma che semplicemente non fa più male. Sergio, incuriosito tanto quanto scosso, tenta di comprendere il meccanismo occulto che lega l’intero paese al ragazzo. Nel farlo però risveglia verità nascoste in sé stesso, nella comunità, ma anche nel ragazzo e il confine tra salvezza e distruzione si fa sempre più sottile.

Tematicamente La valle dei sorrisi lavora su più piani: il dolore come peso individuale, come trauma che si può tentare di esorcizzare, ma che torna sempre, come memoria indelebile; la comunità come organismo che richiede omertà, partecipazione rituale, accettazione del dolore altrui come qualcosa che non deve più essere affrontato, ma delegato; l’adolescenza come soglia; il bullismo tra le mura scolastiche. Matteo è figura liminare, corpo sacrificale, specchio delle paure altrui, ma anche veicolo di un potere oscuro che può diventare pericolosissimo se non controllato. C’è il tema del coming of age declinato in chiave horror, ossia non come scoperta gioiosa del sé, ma come riconoscimento traumatico delle proprie fragilità e di quei legami che si rivelano catene da spezzare. Strippoli non nasconde che il film sia metafora: la felicità mondana, l’illusione dei sorrisi, il conformismo del benessere apparente.
L’adolescenza è, per sua natura, periodo di transizione, di rottura e di ricostruzione. L’individuo si trova a dover ridefinire la propria identità, a sperimentare il distacco dall’infanzia e a misurarsi con nuove spinte di autonomia. Qui l’elemento di rottura è il nuovo insegnante Rossetti, l’alieno, colui che mostra l’alternativa possibile, quella dell’emancipazione. Nel nuovo scenario proposto, il dialogo con il genitore e la comunità tutta diventa terreno di scontro, di incomprensione e talvolta di vero e proprio conflitto. Nella vita reale è proprio dentro queste difficoltà che si gioca gran parte della possibilità educativa: comprendere, accettare e affrontare gli ostacoli comunicativi significa accompagnare l’adolescente nella costruzione di sé, senza rinunciare al ruolo di guida e riferimento.
L’adolescente vive intensamente il presente, spesso in maniera emotiva e assoluta. Matteo scopre le prime pulsioni e si rende conto che sono veicolate verso un suo compagno di classe. Anche qui si rende conto di non poter essere ciò che la comunità si attende da lui. Matteo è vittima di una doppia “diversità”. Il genitore, dal canto suo, porta con sé l’esperienza, la memoria del passato, la responsabilità del futuro e della comunità di Remis che dipende da Matteo per non perdere la sua serenità. Parla con la preoccupazione di chi deve proteggere e con la razionalità di chi ha già vissuto un trauma. Questo scarto genera incomprensioni: ciò che per il genitore è un consiglio ragionato, per l’adolescente appare come un’imposizione; ciò che per il figlio è un bisogno di libertà, per il genitore può sembrare un rischio ingiustificato. La parola, in questo contesto, rischia di perdere il suo potere di mediazione e di trasformarsi in barriera.
Il nodo critico adolescenziale – e qui parliamo di vita reale e non di fiction – riguarda la gestione delle emozioni. L’adolescente sperimenta un’intensità emotiva nuova, spesso non ancora governata e in alcuni casi mai governabile. Rabbia, euforia, frustrazione, entusiasmo si alternano rapidamente, lasciando disorientamento in sé e negli altri. Il ragazzo reagisce con silenzi ostinati, con parole dure, con atteggiamenti provocatori che hanno come obiettivo implicito quello di testare il limes, il confine, di verificare la solidità del legame affettivo. Il genitore, messo alla prova non più solo come genitor ma come tutor, può sentirsi respinto o non riconosciuto nel proprio ruolo, e rispondere a sua volta con chiusura, giudizi rigidi o con tentativi di regolamentazione repressiva. Così il dialogo si incrina e diventa campo di battaglia dove ognuno difende la propria posizione senza ascoltare davvero l’altro. Eppure, proprio in questi momenti, la capacità di reggere la tensione emotiva e di rimanere presenti senza cedere alla tentazione del conflitto distruttivo costituisce un atto pedagogico fondamentale. Il genitore non deve vincere la discussione, ma custodire lo spazio del legame, anche quando la comunicazione sembra impossibile. Inutile dire che nel film di Strippoli c’è bisogno di esplosione della dimensione orrorifica, quindi la tensione emotiva è destinata a sprigionare il monstrum, il daimon che prende forma non in termini junghiani come espressione della vocazione interiore, ma come forza distruttiva.

L’adolescente per crescere ha bisogno di sperimentare conflitti, di misurarsi con la frustrazione, di opporsi per trovare la propria strada. Il genitore, dal canto suo, deve accettare di perdere una parte del controllo che esercitava nell’infanzia e di riconoscere al figlio uno spazio decisionale più ampio. Questo passaggio è doloroso, perché implica un ridimensionamento della propria funzione educativa: non si è più i custodi assoluti, ma si diventa interlocutori che devono saper proporre, orientare, motivare, senza la garanzia di essere seguiti. La difficoltà comunicativa nasce spesso da questa resistenza reciproca: il figlio teme di non essere compreso nella sua esigenza di autonomia, il genitore teme di perdere il legame e l’influenza. Ne La valle dei sorrisi questo non è possibile, perché la comunità non può più fare a meno del potere psicotropo di Matteo Corbin. Il ragazzo è in pratica un antidepressivo in carne e ossa del quale Remis non riesce più a privarsi.
Gli interpreti del film contribuiscono in misura determinante alla sua buona riuscita: Riondino è credibile come uomo ferito, duro nell’apparenza ma vulnerabile lui stesso, e soprattutto il più teso alla comprensione dei conflitti interiori dell’adolescente Matteo; Giulio Feltri, alla sua prova più importante, incarna con efficacia Matteo, figura delicata ma centrale; Romana Maggiora Vergano – rivelazione di C’è ancora domani – regala anche lei una presenza che oscilla tra attrazione e inquietudine. I personaggi secondari, benché non sempre sviluppati in uguale profondità, partecipano al coro della comunità costruendo una coralità che mette in luce l’insieme tragico.
L’horror di Strippoli evoca per l’uso della comunità che cela riti primitivi, certe suggestioni scolpite in pellicole come Midsommar di Ari Aster, che usa il rituale isolato, il candore che nasconde orrore, il giorno che sfugge al male. Ma mentre Midsommar gioca molto sull’abbagliante luce del giorno, la natura accerchiante e la totale immersione nel rito, La valle dei sorrisi usa il contrasto fra la luminosità apparente e l’ombra interna, fra la vita di tutti i giorni e il miracolo faustiano. Meno folclore sanguinolento, più introspezione morale. Si possono trovare echi ne Il villaggio dei dannati per la figura del giovane “diverso” dalla comunità che esercita su di essa un potere: del resto immaginiamo che chiunque abbia la pretesa di fare horror abbia il poster di John Carpenter in camera da letto. C’è qualcosa di Hereditary – sempre di Ari Aster – per l’infanzia che cela oscurità e responsabilità. In Italia, si può pensare al cinema horror autoriale come The Nest di Roberto De Feo, con cui condivide il desiderio di tornare a un orrore più psicologico e nello specifico al tentativo di preservare il figlio dall’orrore esterno.
La valle dei sorrisi non è un film perfetto. Alcuni passaggi soffrono di una spiegazione un po’ troppo esplicita, specie nella seconda parte, che rischiano di smorzare la tensione. Alcuni personaggi secondari restano solo abbozzati, meno caratterizzati, a volte con dialoghi che sembrano messi lì per funzione più che per vita propria. Il ritmo, per chi ama un horror che non indugi troppo nella contemplazione, può apparire lento, talvolta in eccesso, con momenti in cui il sospetto cala e la storia rallenta prima del ritorno della tensione. C’è anche il rischio che l’allegoria si appesantisca per lo spettatore che vada in cerca del solo orrore puro.
Nel bilancio finale però il film riesce a imporsi come un lavoro significativo nel cinema di genere italiano contemporaneo. Dimostra che l’horror può essere veicolo non solo di intrattenimento ma anche di riflessione; che la paura può abitare non solo negli effetti, ma nei gesti, negli sguardi, nelle omissioni, nei rituali silenziosi; che la bellezza naturale e la luce possono essere altrettanto terrificanti quanto il buio. La valle dei sorrisi è un film da vedere sul grande schermo e ha bisogno di lasciar sedimentare la sua inquietudine. In definitiva, un film doloroso, bello, necessario: non perfetto, ma capace di scavare, di far riflettere e di restare nelle viscere per sedimentare.