di Viola Ardone, Einaudi 2019
Il romanzo si apre nella Napoli del dopoguerra, precisamente nel 1946, con protagonista il piccolo Amerigo Speranza, sette anni, che vive nei vicoli dei Quartieri Spagnoli insieme alla madre, Antonietta, in una condizione di povertà e fatica. La Napoli che Ardone descrive non è una cartolina, ma un luogo di carne e sudore, dove i bambini giudicano le persone dal loro abbigliamento, contando i punti. Amerigo quasi per gioco conta i punti quando vede una scarpa sana, una scarpa bucata, o niente scarpe.

In queste righe c’è tutto: il movimento, il vicolo, la madre che guida e il bambino che osserva, il confronto sociale continuo, l’attenzione innocente ma aspra del bambino, che guarda scarpe che non sono sue. Le scarpe diventano un simbolo ricorrente del romanzo: scarpe che non calzano bene, scarpe di altri, scarpe che fanno male, che non sono mai state sue. E in queste scarpe si annida la metafora della condizione umana di Amerigo, della precarietà, del radicarsi altrove, della fatica a trovare qualcosa che gli spetti di diritto.
A un certo punto, la madre di Amerigo – donna sola, provata, concreta e riservata – decide di farlo salire su quello che dà il titolo al romanzo: il “treno dei bambini.” Insieme a molti altri coetanei provenienti dal Sud Italia, Amerigo è inviato al Nord nella provincia di Modena, ospite di una famiglia ben disposta, nell’ambito di un’iniziativa di solidarietà promossa dal Partito Comunista Italiano per strappare i bambini alla povertà post-bellica.
Qui inizia per Amerigo un nuovo mondo: nuove scarpe, nuovi vestiti, una scuola da frequentare, acceso di speranza ma anche di smarrimento. È il viaggio non solo fisico ma interiore: da una condizione di miseria e abbandono a una condizione di possibilità, di accoglienza, sebbene anche di perdita. L’esperienza al Nord cambia Amerigo. La famiglia che lo accoglie gli apre non soltanto le porte di una casa più stabile ma anche di strumenti, affetti, musica, una finestra su un altro modo di esistere. E qui il romanzo incede nella sua parte più luminosa, adatta al romanzo di formazione: Amerigo impara, cresce, scopre che si può essere bambini vivendo e non sopravvivendo. Ma Ardone non perde le redini della narrazione: la nostalgia, il senso di estraneità, il rimpianto, il conflitto identitario sono sempre presenti.
Tornato a Napoli, l’esperienza lo misura con un’inesorabile verità: che il ritorno non sempre coincide con il radicamento; che il ponte costruito può rimanere sospeso; che quell’infanzia rubata non si può esattamente recuperare. Il ritorno non è mai il semplice ritorno al punto di partenza: Amerigo si porta dentro il ricordo delle scarpe nuove, del violino che gli è stato regalato, dell’affetto diverso ricevuto; e quei segni lo rendono diverso, e la sua Napoli diventa una terra già attraversata da un’altra vita, cosicché le relazioni – con la madre, con gli amici – assumono una sfumatura nuova, difficile. Il conflitto tra origine e divenire è duro, e Ardone lo rende palpabile nella vita dell’adulto Amerigo, che ora vive con le cicatrici di quel viaggio.
Il romanzo è costruito con sobrietà e al contempo con una voce autentica. Una narrazione fatta di intensità e misura, che sa commuovere senza patetismo. Il linguaggio è quello di un bambino quando serve – oggi adulto che rimemora – ma con la capacità di restituire l’infanzia con freschezza e verità. Sono presenti termini napoletani, congiuntivi “scorretti” a volte ma proprio questo rafforza la voce narrante, ne radica il racconto in un luogo e in un parlato, in una memoria viva. Uno dei temi più potenti è quello della partenza, dell’abbandono e dell’accoglienza simultanei. La madre di Amerigo, nell’atto di farlo partire, compie un sacrificio e un gesto d’amore che è insieme esilio. La “solidarietà” che sta dietro all’iniziativa del treno dei bambini è vera e generosa, ma non priva di risvolti interiori e drammatici: Amerigo si chiede se chi ti manda via ti vuole bene, oppure se è un gesto di gentilezza o di abbandono.
È la domanda del bambino che non sa, che sente, che spera, e che arde. «Chi ti manda via ti vuole bene?» è una delle frasi che scorrono nella mente del lettore insieme a lui. L’accoglienza al Nord è generosa, ma non è senza ombre, non cancella i legami d’origine, non annulla la differenza sociale, non risolve automaticamente la ferita dell’origine. Il ritorno, come detto, è un momento cruciale: Amerigo scopre che il “prima” e il “dopo” non sono più compatibili come un tempo.
Il romanzo tocca anche il tema identitario: essere meridionali al Nord, essere ospite, essere bambino, essere figlio, essere accolto e contemporaneamente altro. Amerigo è sempre un bambino dei vicoli, ma con un’altra storia alle spalle. E la memoria lo travolge. Anche il cognome scelto da Ardone per il protagonista – Speranza – non è casuale: è la speranza di uscire dalla miseria, ma può essere anche speranza tradita o messa alla prova.
Un altro elemento che merita attenzione è il simbolismo della mela annurca che Amerigo conserva e lascia seccare. È il segno dell’amore materno mai esplicitato, una sorta di pegno che diventa morente come la distanza. Questo “paradosso dell’amore” è uno dei motori emotivi del libro. La madre non trattiene Amerigo, lo lascia andare. Ma lasciare andare non significa non amare: al contrario. Questo pensiero attraversa tutto il romanzo, fa vibrare la narrazione. Amerigo, che parte, che diventa altro, che torna, chiede il perché della partenza e del ritorno, della speranza e della radice.
Il treno dei bambini è un romanzo che parla di memoria, di infanzia, di radici. In un’epoca, la nostra, in cui la mobilità è di nuovo tema centrale, in cui i legami si spezzano e si ricostruiscono, in cui l’identità è fluida, questa storia ci ricorda che l’infanzia conta, che le scarpe calzate male segnano un passo, che il prendere un treno può cambiare una vita. Lo stile di Ardone è accessibile ma non banale, combina orale e letterario, dà voce a un bambino e al tempo stesso a una riflessione adulta.
Il treno dei bambini è un romanzo di formazione nel senso più pieno del termine. Non solo formazione del protagonista, ma formazione del lettore. Ci educa a ricordare, a guardare con gli occhi dell’altro, a comprendere che la povertà non è solo economica, ma anche affettiva; che la solidarietà può essere concreta; che il sacrificio è gesto d’amore; che l’identità si costruisce spesso su scarti, su viaggi, su distacchi, su ritorni.