di Isabel Allende, Feltrinelli 2025
Emilia del Valle Walsh nasce a San Francisco nel 1866. Sua madre, Molly Walsh, è una suora irlandese sedotta da un aristocratico cileno. Emilia cresce nel cuore di un umile quartiere messicano, diventando una giovane donna brillante e indipendente che sfida le norme sociali per perseguire la sua passione per la scrittura. Da giovanissima, inizia a scrivere romanzi d’avventura sotto lo pseudonimo di Brandon J. Price, ma la sua carriera decolla quando diventa editorialista al San Francisco Examiner. Emilia convince il suo editore a mandarla in Cile per coprire una guerra civile con interessi economici e politici statunitensi. Così, nel 1891, si ritrova a Santiago, una città sull’orlo del baratro. Ospite della (già nota ai lettori) mitica Paulina del Valle, vive gli scontri in prima linea, s’innamora e riprende contatto con il padre biologico in punto di morte. Emilia dovrebbe tornare a San Francisco, anche per coronare il suo amore, ma decide prima di voler vedere una piccola proprietà terriera, l’unica eredità lasciatale dal padre, nei pressi del lago Pirihueico, in una zona disabitata di inviolata bellezza naturalistica.

Il nuovo romanzo della Allende si impone fin dalle prime pagine come qualcosa che sfugge a ogni etichetta immediata, un libro che si colloca in quella zona di confine dove il dato autobiografico si trasfigura in finzione e il linguaggio assume la doppia funzione di memoria e invenzione. Emilia, la voce narrante e al tempo stesso il personaggio centrale, è figura cangiante e sfuggente, che definisce sé stessa e si disfa in un continuo movimento di autorappresentazione, in un atto di resistenza alla cristallizzazione. L’opera si muove lungo coordinate che vanno oltre la trama e abbracciano la riflessione sull’io, sulla parola e sulla condizione femminile in un mondo che tenta di incasellare, ridurre, delimitare. Già nel titolo si avverte l’ambiguità del gesto: nominarsi significa rivendicare un’identità, ma al tempo stesso esporsi al rischio della semplificazione, della fissità che annulla la complessità. In questo paradosso si muove tutto il romanzo, oscillando tra il desiderio di essere riconosciuta e la necessità di sfuggire allo sguardo altrui. Non a caso la protagonista nella prima parte della sua vita professionale deve darsi un nome maschile per essere accettata.
La storia che si dipana è quella di un’infanzia segnata da silenzi e incomprensioni, di un’adolescenza vissuta come tensione tra desiderio e vergogna, di una maturità che non giunge mai davvero a compimento perché la protagonista si riconosce in un perenne stato di transito. Emilia non è mai pienamente bambina, né adolescente, né donna adulta: è piuttosto una soglia incarnata, un essere liminare che vive nel varco, nello scarto. Questo la rende affine alle figure femminili di Elena Ferrante, soprattutto alla Lila della quadrilogia napoletana, personaggio in costante metamorfosi, refrattario a ogni definizione, intrappolato e al tempo stesso ribelle. E tuttavia Emilia non ha la dimensione epica e sociale che caratterizza i romanzi di Ferrante: il suo orizzonte è più interiore, quasi claustrofobico, e si nutre di un incessante lavorio sul linguaggio come spazio di liberazione e di prigionia.
Isabel Allende scava nelle pieghe della memoria individuale con un rigore che richiama i diari e le autofiction del Novecento, ma il suo racconto non si riduce a una cronaca di sé: è un’indagine sull’atto stesso del ricordare, sulla deformazione inevitabile che la parola impone al vissuto. L’autrice mette in scena la fragilità della memoria, il suo essere un tessuto di omissioni e invenzioni. Emilia sa che ogni parola che la definisce è inadeguata, ma sceglie ugualmente di dirsi, di pronunciare il proprio nome come un atto di resistenza.
Ciò che colpisce è la costruzione del tempo narrativo, che non segue mai una linea retta ma si frantuma in digressioni, ritorni, salti improvvisi. La linearità cede il passo a una temporalità interiore, soggettiva, fatta di ossessioni che riaffiorano, di ricordi che si impongono senza preavviso. C’è un’idea di passato che non è mai definitivamente trascorso, ma che si insinui nel presente con la forza di un evento che non smette di accadere. Emilia vive nel presente, ma costantemente interpellata da ombre che non svaniscono: figure familiari, amori interrotti, luoghi che diventano simboli di un’identità impossibile da fissare.
La dimensione politica del romanzo c’è, Emilia del Valle viaggia per il Cile per raccontare la Guerra Civile del 1891, ma anche il parlare di sé, per una donna, in quel periodo, è già in sé un gesto politico, soprattutto quando lo si fa senza compiacenze, senza piegarsi a uno sguardo esterno che attende una rappresentazione rassicurante. Emilia rivendica la propria voce in un panorama letterario che troppo spesso ha relegato le voci femminili a ruoli secondari o stereotipati. In questo senso, l’opera si iscrive in un filone che va da Virginia Woolf a Doris Lessing a Toni Morrison, scrittrici che hanno usato la narrativa come strumento per sovvertire l’ordine simbolico dominante e affermare la centralità di un’esperienza altra, non riducibile a quella maschile. Che è poi argomento di gran parte dell’opera di Isabel Allende.
Il tema dell’identità viene trattato con una finezza che lo distingue da tanta narrativa contemporanea incline a semplificazioni o a slogan. Emilia non cerca una definizione di sé, non mira a una riconciliazione: accetta piuttosto la molteplicità, l’incoerenza, la dissonanza. In questo si avvicina al concetto di “identità narrativa” elaborato da Paul Ricoeur, secondo cui l’io si definisce non come unità data una volta per tutte, ma come racconto sempre aperto, come intreccio di storie. Emilia è tutte le sue storie, e nessuna di esse basta a contenerla. L’io narrante diventa così una figura emblematica della condizione contemporanea, in cui le identità sono fluide, mobili, in continua trasformazione, in contrasto con la rigidità dei ruoli sociali e culturali.
Alla fine della lettura, ci si rende conto che il libro non ha offerto una soluzione né una catarsi: ha semplicemente aperto uno spazio in cui sostare, un varco attraverso il quale guardare l’identità come processo. Emilia resta un enigma, ma un enigma che parla, che ci interroga. E forse è proprio questa la forza più grande del romanzo: ricordarci che la letteratura non deve fornire risposte, ma creare domande, non deve rassicurare, ma destabilizzare.