Molto amato al Sundance Film Festival 2005, il film della danese Susanne Bier ha due meriti innegabili: in primis, la tendenza a bilanciare con grande accortezza la tenerezza familiare, la gioia e la crudeltà mentale, senza appesantire troppo il flusso narrativo; poi, il canone “Dogma” realizzato in scioltezza, molto serrato invece nei precedenti film, per uno stile filmico non regolamentato dagli stretti canoni alla “Idioti”, come se la seguace di Lars Von Trier si fosse liberata da un giogo troppo pressante. Penalizzato da un titolo italiano fuorviante, giacché la traduzione letterale di “Fratelli” ricorda troppe pellicole, la storia non è originalissima. Due fratelli, uno scapestrato e belloccio, l’altro militare e con il senso del dovere, si ritrovano intorno al desco familiare, prima che il maggiore Michael parta per l’Afghanistan. Siamo nel 2001. Creduto morto dopo una sciagura aerea, mentre in realtà è tenuto prigioniero con un altro compatriota dai Talebani, il fratello Jannick si lega sempre più a Sarah, bellissima vedova, prima tenuta in disparte perché ritenuta una “borghesuccia viziata” e alle due nipotine.

Il fattaccio che ogni spettatore smaliziato aspetta non avviene, però, ovvero che i due si consolino della perdita stando tantissimo a letto. Le premesse ci sarebbero, gli sguardi, la convivenza, un bacio appassionato pure, ma la Bier sembra dover pagare il pedaggio di una distribuzione internazionale e non osa (il film, a dirla, tutta, poteva essere una capolavoro erotico vietatissimo!) mettere in scena ciò che aveva pensato in sede di sceneggiatura. Il “morto” che torna da una disumana guerra di religione prende il sopravvento e un alito di pacifismo aleggia per un poco sul tono da melodramma familar-erotico. Ma la Bier non si fa plagiare dal marketing e, quando meno te l’aspetti, ci si ritrova in un’atmosfera “Festen”, con marito impazzito per i sensi di colpa e gelosissimo del fratello che sfascia casa sotto gli occhi atterriti delle due figli. La regista tiene a bada il cuore, questo fardello chiamato sentimentalismo che falcidia i nuovi lungometraggi italiani. Alla furia segue il rimpianto e un senso di disturbo. Alla fine si resta inappagati per il mancato sviluppo amoroso, ma entusiasti per un’opera che non si disfa in banali cliché cinematografici. E il fascino di Nicolaj Lie Kaas con Connie Nielsen vale di più dell’insipida coppia Affleck-Lopez.

di Vincenzo Mazzaccaro