Bisognerebbe ringraziare autori come Iciar Bollain perché sono capaci di darci un cinema lucido e impegnato, libero da verbosità accademiche e luoghi comuni, sgombro di tutte le frasi precotte di chi si parla addosso. Si dovrebbe poter andare da lei e stringerle la mano, dirle quanto bene faccia con il suo lavoro, dando voce a chi la bocca non ha avuto mai il coraggio di aprirla per denunciare quello che ha subito. È un film delicato, Ti dò i miei occhi, un lavoro portato avanti con grande sensibilità e con estrema chiarezza, non perdendo mai di vista le realtà del problema nel suo manifestarsi, basandosi su notizie prese dai giornali e sui freddi numeri delle ricerche statistiche, ma mai prescindendo da tutta la calda umanità che sta dietro a quelle cifre. La narrazione procede con un’onestà spiazzante: non ci sono la vittima da un lato, circondata dall’aura dei buoni che subiscono, e il cattivo, l’orco, dall’altra parte della barricata, incapace di provare sentimenti e di avere dei lati positivi.

Qui c’è una famiglia che lotta, che soffre, che subisce tutta nella sua interezza, che si basa su una menzogna, su un amore marcio eppur vero, sul silenzio dei parenti, sul desiderio di altri di aiutare, sull’incapacità di rendere davvero utile questo aiuto. Antonio è rude, è violento e lunatico, con lui sua moglie si sente in pericolo, si sente allo scoperto nella sua stessa casa (ma non la sente sua fino in fondo, e infatti, quando fa le valige, non porta via niente). Ma Antonio crede di amare davvero Pilar. Il suo sentimento è infantile e ispira insieme rabbia e dolcezza («Mi manca il rumore di lei. Pilar si muove in fretta, ma non emette quasi nessun suono»), lui ci prova ad essere migliore… Ed è splendida l’interpretazione che ne da Luis Tosar, con una gamma espressiva che riesce a passare in pochi secondi dalla comprensione alla paura, alla gelosia bieca, alla rabbia folle e accecante. Accanto a lui Laia Marull, altrettanto splendida, altrettanto intensa, sicuramente eccezionale sia quando la situazione collassa, sia nelle scene più quotidiane di paura, di lavoro, di vita casalinga, di riscatto attraverso l’amore per l’arte e l’affermazione individuale come semplice essere umano.

Insieme i due creano un’atmosfera sempre satura, un clima di angoscia e di trappola tra quattro mura. Perché questo è il pregio più grande del film: la violenza mostrata è pochissima, ma lo spettatore la sente, la percepisce, la respira. Iciar Bollain ha restituito al problema quell’aspetto che non troveremo mai nelle pagine di cronaca, nei talk show e nelle statistiche. È quello che rende difficoltoso per una donna spiegare, denunciare, raccontare: è la costante paura, in ogni istante dell’esistenza, il terrore anche di chiedere di uscire, di domandare un consiglio, un parere, di prendere una normale decisione domestica. È il terrorismo domestico, quello che nessun rapporto di polizia riporterà mai, quello a cui nemmeno le associazioni assistenziali possono dare risposta. È l’aspetto più tremendo, quello che “rompe la vita”, spezza i sogni, lacera l’anima, smorza la volontà di reagire.
Grazie, Iciar. A nome mio e di una donna su cinque.

di Federica Aliano