La domanda di partenza era portentosa, di quelle che risposte non dovrebbero averne una soltanto. Suonava più o meno così: “Cosa significa essere dalla parte giusta e avere la forza dell’età per esserlo?”. Luca Guadagnino una risposta voleva darla a tutti i costi e, allora, ha girato in lungo e in largo per l’Italia, ha incontrato esemplari giovanili a decine, finché non ha trovato i quattro perfetti. Come dice lui, «I quattro più dolci e sinceri su cui ho puntato la macchina da presa addosso». Così ecco a voi i protagonisti, quattro ragazzi che hanno vent’anni o poco meno, che si chiamano Francesca, Morgana, Edo e Antonio e che, introdotti dal ballo scatenato di Fabrizia Sacchi e accompagnati da Valentina Cervi che duetta con Arto Lindsay, da Claudio Gioé che si concede in consigli coreografici e, soprattutto, dalla “guida speciale” Libero De Rienzo, vedrete girare quasi a ruota libera o, meglio, nella libertà disegnata dal montaggio dei loro pirotecnici giri, liberi davvero perché l’idea era di seguirli e nulla più, di non intralciare il loro percorso, di non dar spazio alla macchina da presa. Così si trovano nella città etnea un po’ per caso, inseguendo note e canzoni, pronti a perdersi. A perdersi tra le pieghe di questa storia, Mundo civilizado, raccontata da Luca Guadagnino (che qualcuno ricorderà come il regista di The Protagonists) e che lui stesso presenta come un “docu-musical” perché la musica è la vera protagonista o, forse, il motore di ogni storia che qui si intreccia e si slega.

Ogni storia nel ventre, spesso notturno ma mai buio, di questa Catania che il regista con la sua macchina accarezza con fare da amante, a volte lontano ma mai abbandonato, e che pensa come «Un luogo in cui oggi si danno appuntamento le maggiori star della musica mondiale e i gruppi emergenti; un luogo in cui si possono trovare tanti studi di registrazione in cui sperimentare la musica, dal beat contemporaneo allo stile senza tempo del classico». Ma Catania, così come lui l’ha voluta, è anche lo specchio dell’inquietudine dei protagonisti del film alla ricerca di se stessi, semplicemente in nome “del diritto di fare ciò che ci va e basta”, afferrati dalla ricerca di una musica che li travolga. E la musica è tutta qui. Da quella di Arto Lindsay, che firma la canzone che dà il titolo al film, a quella degli apolidi Planet Funk, contaminatori di generi e venuti fuori all’inizio degli Ottanta; da Ludovic Lorca e i suoi ritmi parigini a Vladislav Delay, contemporaneo eroe di laptop music; e, ancora, dagli inglesi Prefuse 73 con il loro ibrido hiphop, al duro Massimo Sapienza, «Violento come un ex punk siciliano isolato da tutti può essere» e al quale si devono i temi musicali principali del film. È questa (ma solo per accennare alle più prepotenti presenze) la musica da cui parte e su cui finisce il film. Ma anche la storia stessa dei quattro giovani che alla fine rimarranno sul vulcano «Ad aspettare che qualcosa accada nel loro futuro senza sapere, appena intuendo, che loro sono il mondo civilizzato che ci ha saputo rivelare la bellezza dell’incertezza di chi ha vent’anni».

di Silvia Di Paola