Grace arriva dritta dritta da Dogville. La incrociamo nella stessa automobile da cui è partita, nello stesso posto accanto al padre gangster (Willem Dafoe) comparso a Dogville con i suoi scagnozzi e il suo fucile e il suo potere di vita e di morte quando per Grace tutto era crollato, il suo desiderio di farsi accettare nella comunità si era frantumato in un incubo, il suo sogno di tolleranza in un aborto. Grace (che non ha più il volto di Nicole Kidman ma della giovane Bryce Dallas Howard) ha persino lo stesso vestito e battibecca col padre allo stesso modo. Lui la sta portando con sé nel suo mondo di prepotenza e di certezze; lei, ancora una volta, si ferma. Impone a tutti di fermarsi davanti alla scena di un nero legato e frustato nella cornice di una proprietà privata, che è una piantagione di cotone in quel di Manderlay, dove sembra che la schiavitù non sia mai stata abolita e i diritti dei neri mai conquistati. Si ferma e decide di restare, col suo bagaglio di idealismo ma anche con una buona metà di uomini e di armi del papà perché lì è la democrazia che lei vuole insegnare ai neri, sono le regole della schiavitù e dei bianchi che vuole sovvertire. Ad ogni costo, ci dice dall’inizio alla fine. E così sarà, ad ogni costo, armi alla mano (ci ricorda qualcuno?). Ma si può davvero imporre la democrazia con la forza? E quanto costa regalare la libertà a chi non ha pane? Un pezzo di pane contro un’idea: quanto vale? La storia di Manderlay, secondo capitolo della trilogia di Lars von Trier cominciata con Dogville e destinata a finire con Wasington, è questa. E il film (dal 28 ottobre sugli schermi italiani) è un apologo sulla democrazia raccontata attraverso una storia di schiavitù, la vicenda di un luogo qualunque che vive e vegeta sui paradossi e i parossismi di chi è fuori e, poi, di chi è dentro alle leggi di ogni democrazia occidentale.

Tuttavia si parte da un’America paradigma di intolleranza razziale e di tolleranza faticosa proprio in virtù della sua storia. Un luogo come un altro per raccontare che cosa può significare insegnare la democrazia con la forza, tratteggiato brechtianamente (anche se stavolta von Trier si è ispirato alla prefazione di Histoire d’O in cui Jean Paulhan racconta di alcuni schiavi liberati che morivano di fame e, perciò, rivolevano il loro padrone) e che, come in Dogville ma più compattamente, prende corpo nella scabra scenografia che non contempla pareti ma solo spazi e luoghi segnati da gessetti e qualche oggetto sintetizzante e si anima più che nel film precedente, grazie anche a una partitura (è il caso di dirlo) verbale che scalpella la mente di chi guarda, mentre a toccare il cuore sono gli sguardi e i corpi degli attori (tutti magnifici da Lauren Bacall a Danny Glover a Isaach De Bankole) addosso ai quali l’occhio della camera sta implacabilmente. Così mentre la bella voce fuori campo (nella versione italiana è di Giorgio Albertazzi) scandisce i tempi e i capitoli della favola nera, i corpi palpitano dei sentimenti e di quell’emotività che rende vera e, insieme, falsa ogni favola, perfetta nell’assunto e negli intenti, imperfetta nel percorso: perché non può che essere così una favola in cui l’uomo possa specchiarsi. Una favola, come questa di Manderlay in cui non ci sono alla fine eroi, e meno che mai eroine, tutti sono colpevoli ma tutti hanno la loro piccola porzione di innocenza. E, se alla fine, appena prima dei titoli di coda che srotolano efficaci immagini di lotta per i diritti civili in America da Malcom X a oggi, la nostra Grace scappa, dopo essersi fatta tiranna lei stessa, è perché anche lei si è fatta vincere dalla sua emotività ed ha perso. È perché «Se ti abbandoni alla tua emotività nella vita reale non vai da nessuna parte». Parola di Lars che meglio di tanti altri sa raccontarci, e sia pure con tutte le ambiguità del caso, la favola della libertà che non si trova. Ma che vale la pena di cercare.

di Silvia Di Paola