Da un romanzo del filosofo e scrittore Georges Bataille, un film livido, ruvido ed estremo, eppure solare, mistico e metafisico nello stesso tempo, trasgressivo e scandaloso, ma anche profondamente lieve e sottile, quasi impalpabile. Ma mère racconta la storia dell’iniziazione al male, inteso come scoperta della perversione sessuale, di un giovane borghese che raggiunge i genitori in una casa di villeggiatura nel bel mezzo delle Canarie; con il decesso del padre nasce, cresce, alimentandosi di ricordi e di sterili immagini, il desiderio del ragazzo nei confronti della madre per la quale prova una sorta di insondabile venerazione. La donna da sempre ritenuta “materna” e candida non appartiene al genere femminile del quale egli si è invaghito, sempre preso fra gli insegnamenti di Claudel e il richiamo spirituale di Dio. «Sono una puttana, una cagna. Nessuno mi rispetta, sono ripugnante, voglio che mi ami per questo, per la vergogna che ti ispiro»: con queste parole una magnifica Helene grida a Pierre tutto il suo rifiuto nei confronti di una società e di un mondo che non l’ha mai accettata per quello che è, mascherata dai conformismi, dai tabù e dalle privazioni. Il viaggio nell’eros, vissuto non come piacere e godimento, bensì puro decadimento del corpo e dell’anima, si incanala in alcuni binari sempre più tortuosi fino a culminare in una vera e propria fine – liberazione. Cristophe Honorè condivide con l’autore maledetto del secolo scorso la passione per la letteratura, per la forza delle parole, per le scene suggerite dalle situazioni del romanzo postumo e incompiuto, uscito negli anni Sessanta e decide di tentare un’esperienza ai limiti del narrabile: riportare il “senso” batailliano sul grande schermo.

Avvolto in un’atmosfera tenebrosa e torbida, il regista francese sceglie la soluzione più ardua, rischiosa, eppure la più affascinante per la riuscita dell’opera: la fotografia di Helene Louvart, sgranata e composta da una luminosità quasi celestiale, accompagna un linguaggio cinematografico votato alla sottrazione, con la formidabile prova dell’ex sognatore di Bertolucci. Ambientato in una delle più famose mete del turismo sessuale e industriale, dove la carne – merce dei numerosi corpi nudi sfila davanti la macchina da presa, evitando ogni sorta di campo e controcampo, l’adattamento del cineasta non cerca la bellezza e il richiamo al profondo estetismo ma si preoccupa di frammentare tempi e spazi, sporcare luci e suoni con un gusto di stampo naturalista. Honorè recupera e riformula anche i dialoghi e i codici linguistici, adattandoli alla modernità: l’unica ad esprimersi seguendo le indicazioni tradizionali è la Huppert, mentre Garrel sdrammatizza il personaggio conferendogli una certa sfumatura umoristica. Per le altre due presenze femminili, Emma De Caunes nei panni della ambigua e bellissima Hansi (nel testo originario la ricca ereditiera) e Rea (Joana Preiss, star underground) il cineasta dichiara di essersi ispirato ad alcuni scrittori di oggi: Dennis Cooper, Sarah Kane, Breat Easton Ellis che, continua, «per me funzionano come i traduttori di Bataille. Il loro lavoro sembra proteggere certe problematiche di Bataille nei confronti delle società liberali contemporanee».

di Ilario Pieri