Silenzio…sipario. Una truffa ben ordita, congeniata sotto la direzione scaltra e puntuale di una mente tra le più brillanti, la piccola Mary di appena nove anni, il “braccio”, suo zio Tom, camaleontico e impavido dinanzi a maldestri antagonisti e un capocomico, il veterano O’Malley, che osserva e detta regole..tutto per un gruzzolo niente male da intascare subito e godersi una meritata vacanza tra le rigogliose vegetazioni irlandesi. I polli da spennare appartengono alla peggiore specie di delinquenti, nel senso più ampio perché non farebbero paura nemmeno al più timido dei novellini: il capofamiglia è un goffo quanto buffo londinese (interpretato da un formidabile Micheal Gambon) Dolores la bella figlia dagli occhi azzurri finirà preda dell’astuto adescatore, e infine una coppia di fratelloni grassi e poco svegli sembrano usciti da quelle serie tv d’oltreoceano alla “Sopranos”.
L’america stavolta non c’entra nulla, anche se per la dinamica degli eventi e il ritmo della pellicola ci pare quasi di essere stati sballottati in una delle farsacce truffaldine alla David Mamet (si pensi ad esempio a “Le cose cambiano). La commedia degli equivoci riprende con originalità vizi e virtù, tematiche e escamotage del passato, mettendo in scena uno Shakespeare, che si muove sullo sfondo con un quanto mai inverosimile e serioso “Riccardo III”, un certo tipo di macchiettismo alla Ben Johnson, e una serie di costumi da indossare e levare al solo scopo di infittire una trama novecentesca ingarbugliata, con parecchi debiti nei confronti della tradizione latina.

La giostra si muove grazie alle perfette e mai svagate interpretazioni offerte da Dylan Moran, un giovane talento scoperto dalla televisione, Micheal Caine, in principio in sordina e poi a suo agio con nasi adunchi da tiranno e panni femminili (del resto c’era abituato) Miranda Richardson inquadrata in una sorta di lungo cammeo, e dulcis in fundo, una scatenata e impeccabile Abigail Iversen, della quale sentiremo sicuramente parlare. Accade di tutto quando il povero attore decide di camuffarsi a più riprese: scoppiano cariche a fuoco sistemate nei costumi, volano toupet e bruciano parrucche, schizzano finte dentiere, qualcuno finisce ingessato e qualcun altro è costretto a patire pene d’amore, fino a quando sull’immensa ribalta della (a)normalità tutto ritorna all’o ordine. Una sceneggiatura ben scritta getta le basi per una regia convincente ambientata tra il grigiume di squallidi e angusti pub, dalla quotidianità deprimente, e spazi verdi e laghi argentati, segno della voglia di fuggire da se stessi per mettersi in gioco. Conor McPherson firma una commedia in cinque atti come una intricata rete di inganni e apparenze: nella realtà così pure nella finzione non esistono confini tra il palcoscenico e la platea (affermava Pirandello che la vita reale copia il teatro) se poi aggiungiamo una bimbetta autoritaria dichiarare “sono abbastanza annoiata dalla vita” è la volta che non abbiamo capito proprio nulla.

di Ilario Pieri