Attore navigato e ricercato, Stefano (Lo Cascio) sta per iniziare le riprese di un nuovo film, melodramma ambientato nell’Ottocento, dal titolo La vita che vorrei. Già dalla prova lettura con il regista, Stefano capirà che la protagonista femminile non sarà la sua amica Chiara (Galatea Ranzi), ma la semisconosciuta Laura (Sandra Ceccarelli), trentatreenne attrice con una più che incerta carriera alle spalle. Da questo momento in poi le suggestioni e la finzione del set – allestito per raccontare le sorti del tragico amore tra Stefano/Federico e Laura/Eleonora – si sovrapporranno nell’esistenza dei due personaggi, in un crescendo di passione e di insanabili incomprensioni. Dopo Luce dei miei occhi, Giuseppe Piccioni torna a dirigere la coppia Lo Cascio/Ceccarelli in questo ben calibrato gioco, superficialmente considerabile metacinematografico, apparentemente non proprio originale, ma di innato fascino: La vita che vorrei potrà sembrare opera furba e di maniera, ma rapisce per intensità e, proprio per la sua capacità di risultare qualcosa di profondamente vicino, quasi familiare. Un “già visto” che non diviene mai pedanteria, citazione fine a se stessa o ripetizione, ma che – semplicemente (come intuisce perfettamente Flavio De Bernardinis nel suo incontro con Piccioni, pubblicato a mo’ di prefazione sulla sceneggiatura del film edita da Marsilio) – raggiunge i crismi “dell’intimo: qualcosa che il cuore sa di conoscere ma fatica a percepire di nuovo. Un cinema che ci sta accanto ma non riusciamo a vedere più“.

La sottile linea che separa la realtà (anche questa, ovviamente, diegetica) e la finzione, divide i personaggi dalla quotidianità di un amore per renderli fermi, impressi, eterni durante la lavorazione del film nel film. I costumi d’epoca e le scenografie aiutano l’occhio e la forma a viaggiare tra due piani narrativi così distanti e così visceralmente intrecciati, raggiungendo il massimo dell’adesione durante la sequenza del valzer: lo svenimento del personaggio di Eleonora durante le riprese del film nel film coincide con quello reale dell’attrice Laura; tale perdita dei sensi dell’attrice implica, agli occhi dello spettatore, il risveglio improvviso, inaspettato della dormiente realtà sul fasto della finzione. Elemento, questo, più volte abbracciato da Piccioni (autore, insieme a Linda Ferri e Gualtiero Rosella, anche della sceneggiatura) che, tratteggiando il percorso di due personalità naturalmente complesse (l’attore ben inserito e al tempo stesso schifato dal mondo che lo circonda e l’attrice che, seppur ancora distante da certe dinamiche, frequenta comunque l’ambiente presentandosi di buon grado a feste o anteprime), dipinge un ritratto – quasi bergmaniano – delle dinamiche attoriali: la struttura portante del film nel film non sembra essere costruita semplicemente come una riflessione del cinema su se stesso (e anche per questo è molto rischioso etichettare il tutto solo come qualcosa di “metacinematografico”…), ma si sviluppa quasi accompagnando queste due persone nell’intimità del loro lavoro, mestiere che – forse più di altri – è quasi impossibile riuscire a tenere distante dalla vita privata: «Sei un’attrice. Non li scegliamo noi i ruoli», risponde Stefano ad una riflessione sull’assegnazione delle parti fatta da Laura che, quasi sussurrando, chiude così: «Sì… dipende da come ci vedono gli altri…».

di Valerio Sammarco