Il nuovo e l’antico che occupano con diffidente noncuranza lo spazio vasto di una Cina, perennemente divisa e lacerata tra il desiderio di assaporare una vita consumistica e la necessità di non disperdere i saldi ed intimi sentimenti della tradizione. Un percorso di “crescita” e trasformazione che, dall’esile corpo di un tredicenne insicuro ed esterefatto, si propaga sino ad abbracciare, coinvolgere ed avvolgere una nazione nella sua caotica prospettiva sociale e culturale. La spontanea invadenza contadina si contrappone all’asettica raffinatezza del successo. Il paesaggio di una lontana provincia “addormentato” nei colori e nelle strutture di un mondo avvolto da una tenue patina di antichità contro il caotico vorticare di voci e luci di una realtà stravolta e trascinata in un veloce processo di evoluzione/involuzione. Ed ancora l’estenuante ricerca del successo come unico appiglio per decretare la propria effettiva esistenza ed il doloroso, solitario percorso per riappropriarsi di una dignità dimenticata. Contrasti, rapporti e convivenze impossibili per loro stessa natura che il giovane Xiao Chun, con lo stupore e la purezza delle sue insicurezze e la melodica consolazione di un violino, sembra racchiudere e riassumere attraverso un’inusuale armonia. Una narrazione che all’immagine affianca, unisce, fino ad intrecciare ansiosamente un percorso musicale con il mero compito di divenire trascinamento e coinvolgimento emotivo nei confronti di una vicenda che, incomprensibilmente, troppo si “sporca” e si “crogiola” in ambientazioni da melodramma. Dopo aver raggiunto il successo internazionale con Addio mia concubina Chen Kaige ci consegna un’opera artisticamente apprezzabile per l’eleganza essenziale della sua fotografia e per il deciso tratto caratteriale concesso ad ognuno dei suoi personaggi. Delimita uno spazio recitativo distribuito e diretto con delicata precisione, imponendo allo svolgimento della vicenda un andamento riflessivo senza cadere nell’estenuante, contemplativa lentezza di alcune pellicole orientali. Eppure si lascia conquistare, volontariamente, dalla tentazione di impermeare l’intera prospettiva con accenti di “patetico” intimismo. Dimentico di rappresentare nella sua interezza uno stimolante ed interessante scorcio postrivoluzionario, preferisce abbandonarsi alla consolatoria, quanto improbabile scelta di una salvifica redenzione dai “peccati” del mondo moderno. Un happy end dal deludente, sciropposo retrogusto.

di Tiziana Morganti