Ingiustificabile e offensiva operazione commerciale, questa rivisitazione in ‘chiave Bruckheimer‘ della leggenda di Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda è tra le peggiori mai portate sullo schermo. Non tanto per le premesse storiche, le quali hanno un preciso fondamento, ma per il modo in cui queste sono state rappresentate sullo schermo. 90 milioni di dollari per realizzare un film dove ogni scenografia sembra il castello dei “Playmobil”, Ginevra è una Legolas al femminile, Merlino è un punk ‘fattone’ e Artù un inespressivo attore di avanspettacolo, ci sembrano sinceramente troppi. In effetti, a livello di cast, si salva solo il trio di casa nostra (Marescotti, Orsola Garello De Angelis), oltre ad una Keira Knightley cui il film sembra vestito addosso. È lei che ruba la scena a tutti gli altri, sia per la forza dell’innovazione iconografica legata al suo personaggio, sia per la qualità artistica della sua prestazione. In effetti l’attrice potrebbe essere andata davvero a ripetizioni da Orlando Bloom, visto che i due sono amici fraterni. L’operazione risulta tuttavia fallimentare nel suo complesso perché non ha la struttura per reggere le tesi storiche che vuole propugnare, e non ha il distacco e la leggerezza di un film come La maledizione della prima luna, (dello stesso Bruckheimer) per poter intrattenere. È un ibrido di cui non si comprende sinceramente lo scopo.

Detto ciò iniziamo ad analizzare il concetto fondamentale di questo film: l’esposizione di un’ipotesi storica frutto degli studi epigrafici di due americani neanche nominati, Scott Littleton e Linda Malcor. La tesi è che l’Artù dei miti e delle leggende raccolte sotto l’accezione di “Ciclo Arturiano”, sia un centurione romano, tale Lucius Artorius Castus, spedito da Marco Aurelio in Britannia per difendere i confini idealmente rappresentati dal Vallo di Adriano dagli assalti delle popolazioni nordiche: Angli, Sannoni e Juti. Ebbene tra le ipotesi di Geoffrey Ashe (The Discovery of King Arthur – 1985), che identifica Artù con Riothamus, re britannico del V secolo, che, a nome dell’ormai morente Impero Romano, si recò sul continente, combattè i Visigoti, e, sconfitto, nel 470 d.C. si ritirò in un paese della Burgundia, quelle di Alan Wilson e Baram Blackett (Artorius Rex Discovered – 1985) che lo identificano con Arthwyr ap Meurig, il sessantunesimo re di Giamorgan e Gwent e vissuto tra il 503 e il 579 d.C., quelle esposte da Nikolai Tolstoy in The Quest for Merlin – 1985 dove Artù altri non è se non lo scozzese Gwenddollau ap Cedio, re di Selgovia e morto nel 573 d.C., quelle di Le Poer Trench che lo fa risalire al ribelle Arviragus, che combattè contro i Romani nel I secolo e che avrebbe dato inizio a una stirpe di differenti Artù, sacerdoti del culto della “Grande Madre”, l’ipotesi Malcor-Littleton sembra oggi la più accreditata.

Associando il nome di Artù all’Italia si pensa subito a San Galgano, località toscana dove si trova una ‘spada nella roccia’, ma il ‘nomen’ gentilizio Artorius associato al ‘cognomen’ Castus risulta invece diffuso nell’area di Nola, zona di reclutamento della III Legione Gallica, e dove si credono sepolti molti condottieri romani. La località è curiosamente vicina a quella di Avella, nome ‘troppo’ simile nella sua radice a quello di “Avalon”, entrambi con il significato di “terra delle mele”. Infiniti rimandi architettonico/artistici associano inoltre quella regione alla figura di Artorius e al Graal (quindi Maria Maddalena-Giuseppe di Arimatea): ci riferiamo in particolare al complesso basilicale paleocristiano di Civitile (il “Coemeterium” di Nola) nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto e nella “Leggenda Aurea” di Jacopo da Varagine. Se associamo poi l’epigrafe della croce di Glastombury, che riporta “HIC IACET SEPULTUS INCLITUS REX ARTORIUS IN INSULA AVALONIA”, alle cronache di un anonimo del 950 che riporta la notizia di un “Artù che portò la croce di nostro Signore” alla battaglia sulla collina di Badon (Annales Cambriae), è possibile chiudere il cerchio. Eppure non è così semplice. Dell’importante vittoria di Badon si occupò uno scrittore coevo, San Gilda, nel De Excidio Britanniae (545), dove non c’è alcun riferimento ad ‘Artorius’.

La sua presenza a Badon sembra dunque essere un’invenzione dei cronachisti dei secoli successivi, dove anche il mito arturiano prese la forma oggi più conosciuta. Le fonti letterarie sono difformi e contribuiscono a creare figure e luoghi che si perdono più nella leggenda che nella realtà: in effetti non dimentichiamo che i nomi stessi di ‘Arhur’, ‘Pendragone’ e ‘Merlino’ erano titoli e non nomi, il primo dei quali deriva dall’etimologia celtica di ‘arthos=orso’. L’orso nell’antica regione greca dell’Arcadia era un animale sacro, Arcade era infatti narrato nell’epica come il figlio di Callisto e Callisto è il nome più moderno della costellazione dell’Orsa Maggiore. Ora, anche tra i Franchi Sicambri l’orso era tenuto in così alta considerazione, così come nei loro discendenti, i Merovingi, tanto operosi nel fornirsi una discendenza dall’antica Arcadia (nota come ‘terra dell’Orso’ e dunque tanto interessati al perdurare di questo culto. Culto che era talmente diffuso nel territorio delle Ardenne da spingere la Chiesa Cattolica a promulgare statuti anche sin nel 1300 per la sua soppressione, eppure esso sopravviveva, un culto verso un animale sacro adorato come personificazione di Artemide=>Arduina=>Ardenne e il cui nome gaelico era ‘ARTH’. Non un nome gentilizio quindi, ma un epiteto che si perde nella notte dei tempi, come tanti altri nomi che hanno avuto la funzione di creare una connessione e una nobile discendenza alla dinastia Merovingia (Troyes=Troia, Paris=Paride). Piano dunque con le conclusioni e le associazioni del personaggio Artù al “concetto Artù”, di ben più ampia fattura e significanza. Non è questa la sede per approfondire ancora la figura storica di un condottiero di nome Artù. Non sempre si ha bisogno di sapere, certi miti rimangono tali proprio perché circondati del loro alone di mistero.

di Alessio Sperati