Cantava Francesco Guccini in quella gran canzone che aveva titolo La locomotiva: «Ma nella fantasia l’immagine sua: gli eroi son tutti giovani e belli». I diari della motocicletta sembra trasporre su pellicola questi due versi: Ernesto Guevara, per tutto il mondo il “Che”, è per molti un eroe sempiterno. Ma anche lui è stato giovane e scanzonato. E anche bello se a dargli il volto c’è un giovane messicano che risponde al nome di Gael García Bernal. Un interprete che ha fatto parlare molto di sé, sia per la bravura indubbiamente dimostrata, sia per la scelta sempre singolare dei ruoli. Nonostante abbia le pagine di innumerevoli riviste che lo ritraggono in tutto il mondo, lui gioca a fare l’antidivo, mantiene il suo rapporto di amore-odio con Hollywood (anche se ha la fidanzata americana, la stupenda Natalie Portman), sceglie di recitare parti controverse e copioni che gli piacciano fino in fondo. I diari della motocicletta è il racconto del viaggio che il giovane Ernesto intraprese insieme al suo amico medico Alberto Granado attraverso l’America Latina, in parte in sella a una vecchia moto chiamata “La Poderosa”, il resto a piedi, in autostop e con mezzi di fortuna. In Italia questo diario è edito da Feltrinelli. Quello che il film non dice (o spiega poco) è come il giovane Ernesto, allora nemmeno ventiquattrenne, fosse già completamente formato nell’animo, di come la sua ideologia fosse già ben definita.

Ma Gael dà anima e corpo a un Che sensibile e sincero, animato da profonde passioni non ancora del tutto espresse, con occhi aperti sul mondo, affamati di vita vera, di sapere, di capire. Il film scorre veloce e divertente, con i due amici ai quali capitano ogni sorta di avventure e disavventure, sempre uniti, sempre a borbottare, sempre insieme ad affrontarle tutte. C’è una sorta di fratellanza baldanzosa che ricorda un po’ i tempi in cui Gael interpretò Y tu mama tambien, ma la storia è diversa. Non è la formazione sessuale che conta, ma la presa di coscienza. E il ritratto tutto umano di qualcuno che siamo abituati, persino assuefatti, a vedere stampigliato su magliette e portachiavi, tanto da aver dimenticato il senso di quell’immagine-simbolo-simulacro. Ernesto “El Fuse” è stato un giovane come tutti noi, adorava giocare a calcio, gli piacevano le belle ragazze, il buon cibo e il vino, sapeva divertirsi. Senza mai dimenticare le sofferenze del suo “popolo meticcio”. La macchina da presa avvicina progressivamente il suo sguardo a quello del Fuse, ci fa entrare nella sua testa per poi allontanarsi di nuovo, per ritrarre di fronte l’uomo ormai formato nella coscienza, il futuro comandante. Le immagini polverose, piene di luce, immense nei paesaggi di quell’America che troppo poco ci viene mostrata al cinema, danno l’idea, le sensazioni, i sapori di quei luoghi e anche noi, accompagnatori virtuali, viaggiamo in autostop, ridendo con il Fuse.

di Federica Aliano