Se lo merita Il servo ungherese un tradizionale esercizio dell’atto critico? Macché, per disinnescare quanto di terribilmente serioso e pretenzioso propinatoci da Piesco e Molteni, urge un altro tipo di approccio. Citiamo a caso dalle corpose note a firma Piesco contenute nel “pressbook” gentilmente messoci a disposizione: «La pellicola – per il supporto offerto dall’intreccio ma soprattutto per lo scopo epifanico (corsivo mio) che si propone, quello del senso del vivere infuso dalla cultura – è il luogo adatto per l’incontro delle Arti; il film è infatti un viaggio intorno alla Pittura, alla Poesia, alla Musica (maiuscole sue, per intenderci…), dietro la guida sapiente, ma semplice allo stesso tempo, del protagonista e dei suoi compagni, e se le Arti riescono ad ingentilire gli animi introducendoli all’attività filosofica e speculativa agendo in prim’ordine sui sensi, anche un film, in quanto espressione artistica, è in grado di esercitare lo stesso potere; e questo film è stato concepito proprio nella speranza che gli spettatori possano subire la stessa attrazione catartica nei confronti delle Arti, affinché – cavalcando l’utopia, ovvio (inciso suo, e meno male…) – possa radicarsi in loro un netto distacco da quelle logiche che prevaricano l’etica e la sacrificano all’utilità individuale contingente, nonché da quelle bieche e retrive idealizzazioni della diversificazione razziale che pretendono – in termini del tutto antistorici – la divisione dell’Umanità per categorie e, soprattutto, affinché si diffonda il desiderio di coltivare la memoria del passato: quella artistica (della quale tutto ciò di cui noi ora fruiamo è prodotto) e quella storica della quale, per mezzo della considerazione che le verrà attribuita, proverrà la sopravvivenza della razza umana». Rientrato il sospiro, asciugata la nobile lacrima, tirate le somme e gioite: in sala in questo periodo ci sono almeno due film in grado di cambiarvi la vita.

Se La Passione di Cristo può istantaneamente generare profondi sommovimenti spirituali e convertirvi alle parabole del Nazareno, Il servo ungherese ci trasformerà in soldati del Bello e del Buono. Ora, se immaginiamo Gibson, in cuor suo, condividere la tendenza assertiva nell’enunciazione che caratterizza il buon Piesco, lo scaltro ha avuto almeno l’intuizione di mimetizzarla in un racconto furoreggiante, martellamento di immagini e suoni in cui le parole, vedi il furbo ricorso all’aramaico, sono volutamente in secondo piano (e Tarantino, bontà sua che riesce a divorare tutto, lo ha definito un capolavoro di narrazione visuale che sarebbe piaciuto a D.W. Griffith). Il servo ungherese, invece, è tutto nel passo citato, letteralmente. Quella di Piesco nel “pressbook” non è una scivolata in territori che non gli competerebbero dettata dall’euforia del primo film, ma l’esatta trasposizione su carta di quanto impresso su pellicola. Insomma, l’avrete capito, nel film si discute di Arte (la maiuscola è d’obbligo) in maniera didascalica ed estenuante, i due vogliono trasmettere a noi (più) incolti il loro bagaglio di letture di una vita, ma più che intellettuali sono manualisti, e ricorrono a categorie concettuali vetuste (modernità e post-modernismo non li riguardano? Li immaginiamo a loro agio a Palazzo De Medici, a discettare di Arte insieme ad altri virtuosi cortigiani). Stendiamo un velo sulla furbizia dell’inserire questo tipo di speculazione intellettuale in quella voragine emotiva e storica che è l’Olocausto, e per favore, non si faccia più ricorso allo straniamento brechtiano per giustificare qualcosa di semplicemente noioso. Perché un’artista, più di ogni altra cosa, pone domande. Piesco e Molteni sono in cattedra, ben vestiti e voce impostata, a dare risposte.

di Giorgio Nerone