Roland Emmerich resta sicuramente uno di quegli artisti che meglio sanno come gestire un impianto scenico da centinaia di milioni di dollari e una decina di compagnie di effetti speciali al proprio servizio. Quando distruggere New York e mettere ogni americano di fronte alle sue peggiori paure sembra esser diventato un ‘must’ per le grandi majors produttive, Emmerich è sempre sul podio e sugli scaffali di ogni magazzino del DVD vediamo riaffiorare film come Indipendence Day (stesso regista, 1996), The Core (Jon Amiel, 2003) o Armageddon (Michael Bay, 1998) in edizione speciale con pezzetti di meteorite dentro la scatola. Questo non fa che rammentarci che qualcosa in proposito è già stato detto e che il “Global Disaster Movie” è ormai a tutti gli effetti, un genere a sé. Cambiano i personaggi, cambia il pericolo che minaccia il pianeta nella sua totalità, ma lo schema narrativo è ricalcato come un trasferibile in ogni nuova opera del suddetto genere. Minaccia globale -> prime manifestazioni -> una Cassandra che va predicando in giro la fine del mondo ovviamente non creduta -> la corsa ai ripari quando è ormai troppo tardi per salvare tutti. Questi tratti collaudati hanno portato Emmerich, Gordon e Nachmanoff (rispettivamente regista e sceneggiatori) ad indagare sullo stato delle ricerche scientifiche in materia, arrivando alla conclusione di avere tra le mani la più realistica tra le teorie di geologia e climatologia applicata, tanto da poter far peso, come ulteriore spinta promozionale del film, sui tanti movimenti ambientalisti presenti sul globo: la foto di Emmerich al fianco del nostro Alfonso Pecoraro Scanio ne è l’ultima agghiacciante prova. 

Per un giudizio sul film, magistralmente costruito con l’interazione tra lo scenografo Barry Chusid e le tante società di effetti tra cui risalta la ‘Digital Domain’ di Los Angeles e la cara vecchia ILM di zio George, prendiamo in prestito Michela Greco Il digitale nel cinema italiano (Lindau, 2002): «…il rischio è di abusare della nuova tecnologia, costruendo film che altro non sono che un succedersi di virtuosismi visivi e di effetti speciali». Nulla togliendo agli attori, di Quaid conosciamo benissimo le qualità e Gyllenhaal lo abbiamo apprezzato più ampliamente in Moonlight Mile, diciamo che in un film del genere è inevitabile uno spiazzamento dell’orizzonte visivo dal particolare al generale. Quando il sistema linguistico dell’immagine necessita di una massificazione della prospettiva, l’elemento umano viene meno (o serve da corredo e completamento dello script), e la tutela del realismo viene affidata a software di composizione e rendering, in questo caso il ‘Terragen’, sviluppato proprio dalla Digital Domain, con cui sono stati creati i paesaggi antartici, e il ‘Lidar’, una tecnica di scansione laser applicata su palazzi per riprodurli fedelmente in digitale per poi farne ciò che si vuole. Le scene di impatto non mancano certamente, una delle quali ha un sapore quasi mistico, quella in cui un addetto alle pulizie si vede costretto ad aprire una porta attratto da un enorme bagliore, scoprendo poi come al di là della stessa ci sia solo il nulla: metà dell’edificio era stato appunto spazzato via da un tornado. Un piacere per gli occhi ancora una volta e quel pizzico di masochismo che porta ognuno di noi a ricercare la negatività, a vedere rappresentati i timori ancestrali, come per un americano può essere il vedere una nave russa portata alla deriva davanti la biblioteca nazionale al centro di una New York ormai completamente sommersa dall’Oceano Atlantico. Tra le ridotte compagini umane, quando ormai vige il ‘si salvi chi può’, risalta un presidente privo delle sue certezze che ammette i propri errori ed è pronto a chiedere scusa alla nazione per tutte quelle morti che forse si sarebbero potute evitare: a questo punto ci si chiede quale sia la vera fantascienza…

di Alessio Sperati