Una pellicola di mestiere, diretta, fotografata e interpretata con classe, che non riesce però ad allontanarsi dalla facile classificazione di thriller “da cassetta” per l’eccessiva semplicità del racconto. Questo è Out of Time, nuovo thriller per un Denzel Washington da anni votato alla causa della ‘suspence’, e che non sembra avere una particolare affinità con i kolossal (raramente i film da lui interpretati superano i 50milioni di dollari di budget). Il Washington del nuovo millennio si realizza a pieno in parti equivoche, distorte, dove ha modo di mettere in scena uomini colpevoli ma non sempre condannabili, all’interno di visioni offuscate di una giustizia resa malleabile dalle circostanze. Uomini di legge in bilico tra giustizia e tolleranza, resi ancora più credibili quando la situazione si complica. Il regista Carl Franklin, che lo ha già diretto in Il diavolo in blu, si sforza di mettere a dura prova la credulità della platea con una trama che si dipana in modo piuttosto scontato sulla base dell'”uomo di legge ingiustamente accusato e costretto ad indagare più alacremente dei suoi colleghi per scagionarsi”, seguendo la scia di precedenti come Presunto innocente e Senza via di scampo dove è spesso l’attore a fare la differenza su una traccia già tanto percorsa e che per giunta è alla base di tutto un genere cinematografico. Sullo sviluppo degli eventi si hanno le idee chiare fin dall’inizio, la curiosità rimane sul come tali inevitabili incontri/scontri saranno resi sul grande schermo: in effetti l’attenzione dello spettatore è maggiormente pilotata dallo stile con cui il regista tenta di rinvigorire il genere thriller. In effetti lo sceneggiatore Dave Collard non è molto arguto nello scrivere il plot ispirato a The Big Clock, film del 1948, che offriva ben altri problemi, quindi la traduzione moderna dello stesso, chiama a una compensazione da parte degl attori e dallo stile ineccepibile della ripresa e della fotografia, tuttavia la contestualizzazione degli eventi ai giorni nostri rende molto più semplici alcuni passaggi che forse negli anni ’40 potevano essere un impedimento alla giustizia. La splendida Eva Mendes dal suo canto, riesce a dare luce ad una parte anch’essa in bilico tra la moglie rancorosa e la donna partecipe alle peripezie del (quasi ex) marito. Dean Cain è convincente nella parte del marito violento e, la vittima di questa violenza, Sanaa Lathan, è quella che più giocherà con l’opinione del pubblico per l’ambiguità del suo personaggio. Insieme ad Eva Mendes, un’altra attrattiva di questo film è la sua slendida ambientazione in Florida, con riprese nei dintorni di Miami, Boca Grande e Cortez, musica di circostanza e anche una sigla titoli di testa stile Vice City per gli appassionati della Playstation. Un consiglio: date a questo film, che a tratti può strappare anche qualche risata, la possibilità di oltrepassare i primi 20 minuti, perché è proprio dopo questo tempo che si inizia a fare sul serio…

di Alessio Sperati