La suddivisione posticcia del quarto film di Quentin Tarantino, sembra, col senno di poi, ben architettato. La separazione di due elementi contigui e convergenti pare concettualmente necessaria all’esatta interpretazione dei personaggi stessi, e spezza il ritmo forsennato delle prime battute. Pur tuttavia questa suddivisione rischia di farne perdere il senso complessivo, provocando un giudizio parziale delle due parti della stessa opera, così distanti sotto tanti punti di vista. Il secondo capitolo, della non breve durata di 2 ore e 16 minuti (il primo intento di Weinstein era quello di ‘spezzare’ lo spettacolo per non affaticare lo spettatore), cambia registro, introducendo il fattore ‘umano’. I personaggi del film non rimangono elementi multimediali, file aperti e lasciati sul desktop in attesa di archiviazione, nudi corpi in movimento, ma acquisiscono quella umanità sospesa e negata in precedenza. Ancor di più, la protagonista acquista finalmente un nome, o meglio, la facoltà di venire nominata, con tutto ciò che questo sul piano semiotico comporta. L’opera intera vede introdotti due argomenti principali e catalizzanti: la maternità e il senso vita/morte: Tarantino delimita attraverso questi due concetti il raggio d’azione della sua macchina da presa. La sposa/Black Mamba/Beatrix Kiddo, nella prima parte era moglie e madre in difetto, privata degli elementi che la rendevano tale. Ora questi elementi vengono reintrodotti e resi funzionali all’azione: durante uno dei molti flashback Beatrix ha appena scoperto di essere incinta e supplica un sicario venuto per ucciderla di rinunciare alla lotta, cosa che in passato non avrebbe mai fatto. Ancor di più: se un entourage adulto non è in grado di comprendere il peso di una morte, ecco arrivare sulla scena una bambina che per la prima volta si trova a dover apprendere le conseguenze e le modalità della fine della vita. Un Tarantino filosofo ‘sui generis’? Nel suo ambito sicuramente sì, se può permettersi anche di fondare una sorta di ‘filosofia del fumetto’, proponendo una visione personale della duplicità del supereroe, e in particolare di Superman. Clark Kent come critica del figlio di Krypton al genere umano? Assolutamente affascinante. Ancor di più se mettiamo questa discussione tra un samurai donna e un pistolero che litigano come moglie e marito.

La parodia fondante – Quentin Tarantino è scopritore, esploratore e interprete di un mondo preordinato dove, come afferma Carradine «non esistono buoni e cattivi, ma solo cattivi». La principale abilità di un regista come lui, è quella di giocare con gli ambienti. Più ancora che in Kill Bill vol.1 c’è la presenza di una parodia di fondo, mai oppressiva o occlusiva del contesto drammatico in cui si dipana. Mancherà un po’ d’azione in questa seconda parte, pur comprendendosi la necessità del taglio, anche dato da motivazioni squisitamente commerciali. Dispiace dunque il non aver assaporato l’opera in un unico percorso. Si sarebbe in effetti meglio compresa e apprezzata l’unità nella scomposizione delle parti, o meglio pur notando due ritmi e due differenti densità di eventi, si sarebbe apprezzata la coerenza di una decelerazione progressiva funzionale alla migliore (in)comprensione dei caratteri messi in gioco. Il regista de Le iene evoca le sue divinità primordiali per esorcizzarle, percorrendo la via del remake misto a parodia: invade quindi lo spazio diegetico di un film di Ringo Lam con un personaggio che ne è totalmente estraneo. Tarantino è la sublimazione interpretativa dell’autore che non inventa ma ricontestualizza qualcosa di preesistente al suo cinema. Se Todorof affermava riferendosi alla critica libraria che “l’autore porta le parole e i lettori il senso”, Tarantino accelera collaudando i motori che la storia del cinema gli ha messo a disposizione, portandoli all’estremo. Come potrebbero due samurai condurre il loro duello di spada in un caravan di due metri e venti di altezza? Semplice: non riuscirebbero neanche a sguainare le loro katana. E se il killer più efficace al mondo fosse una donna e trovasse accanto al suo bersaglio la figlia che non ha mai visto? Cosa prevarrebbe in lei, l’istinto omicida o quello materno? Domande queste che hanno fatto nascere Kill Bill, quel capolavoro di avanguardia metaletteraria, dove generi, forme e tecniche sono giocattoli di un ben informato burattinaio.

L’importanza dell’ambito – Per sovrapporre due mondi non basta tuttavia portare una Colt in Giappone, ma occorre strutturare uno scambio interculturale. Quando Tarantino porta Pai Mei sullo schermo, non fa uso di un personaggio ma di una cinematografia intera: quella dei fratelli Shaw, di Ringo Lam. Interpretare correttamente un espediente del genere significa estraniarlo dai nostri schemi interpretativi, perché è esso stesso che li sovverte. La strategia semiotica di un film come Kill Bill è quella di un moderno videogame, dove le possibilità sono limitate solo alla quantità di pixel del nostro schermo e ai megabyte del supporto grafico: possiamo ad esempio per una partita di tennis, scegliere di giocare con Henry Lacoste su un campo in erba costruito sul tetto di un grattacielo, o in una simulazione calcistica creare un 4-3-3 con Garrincha, Di Stefano e Cruijff come centravanti. Ebbene Tarantino fa un po’ questo: prende un muliebre Bruce Lee, un Kwai Chang Caine più cowboy che monaco shaolin e altri ‘Boss’ posti in diversi ‘Stage’ e li fa scontrare tra loro. I personaggi sono stereotipati all’inverosimile, proprio per dare una netta identificazione al loro ruolo e alle loro caratteristiche, come nel migliore RPG. Ma dov’è l’interattività della creazione tarantiniana? Il DVD naturalmente, dove avremo modo di vedere tanti film diversi (con o senza il duello finale e con o senza l’addestramento di Bill nella scuola di Pai Mei).

L’ermafrodita conbattente – Come già detto in occasione del primo capitolo, la donna tarantiniana è priva di caratteristiche prettamente femminili, ma è invece altamente competitiva non solo a livello intellettivo, ma anche fisicamente e questo non vale solo per la sposa, ma anche per la Pam Grier di Jackie Brown, per la Mia Wallace di Pulp Fiction. Come la Grier era il simbolo della Blackxpoitation al femminile, un po’ come Shaft lo era al maschile, la sposa è la summa di una cinematografia prettamente orientale, così ricca di donne guerriero. Se togliamo La sposa in nero di Truffaut e la protagonista di Blood Splattered Bride, il resto viene rubato all’estremo oriente per dare forma e contenuti al personaggio principale nei generi Gong-fu pian e Wuxia-pian (i film di kung-fu e quelli di cappa e spada di ambientazione orientale). Per aumentare le dosi di un frullato di generi Tarantino aggiunge nel secondo capitolo un’ulteriore citazione che coinvolge la bella Uma: la lapide in cui viene sepolta porta il nome di Paula Schultz, la protagonista di una commedia di George Marshall del 1968, dove compare anche il nome di un certo Bill. Sarà una gioia per tutti i cinefili divertirsi a scovare tutte le citazioni tarantiniane, che sono veramente tante…

di Alessio Sperati