“In girum imus nocte et consumimur igni”. Una frase palindroma, un paradosso retorico che esprime una catena dalla quale è impossibile tirarsi fuori, che attinge ai più bassi cardini dell’umana concezione e che è applicabile senza forzature alle spigolature della passione amorosa. Proprio come il quinto lungometraggio di Matteo Garrone, la “frase del demonio”, va a scrutare quel crocevia in cui passione e devianza vanno ad incontrarsi e ad inabissarsi. Piani secanti che vanno a formare altri piani, un’altra vita speculare alla prima, nessuno ha la presunzione per dire se sia migliore o peggiore della precedente, ma è tuttavia deviata da un incontro, questo sì. Come per L’imbalsamatore, la sua pluri-premiata opera del 2002, Garrone ha deciso di trapiantare sul grande schermo una storia del tutto vera tratta dal libro Il cacciatore di anoressiche di Carlo Mariolini, seppure, incredibile a dirsi, edulcorata nella sua fase finale. È la vicenda di Vittorio e Sonia, personaggi “consumati” dalla fiamma della loro passione, privati della loro umanità e dunque inquadrati fuori fuoco, espediente registico usato in tono umoristico, quindi diametralmente opposto, da Woody Allen in Harry a pezzi. Sottili giochi di luce ed ombra veicolano lo stato di dualismo espressivo/emotivo che pervade tutta l’opera, quella sottile linea rossa che divide in amore gioia e dolore, che se non acutamente bilanciata, porta alla devianza, alla patologia. Come attraverso l’annuncio con cui Vittorio conosce Sonia, così Garrone scopre tra i palcoscenici teatrali Michela Cescon, in attività dal 1995 e scelta anche per il suo “peso”, oltre che per la sua professionalità. Interprete lei di un organismo in completo divenire, di una donna in fase di cancellazione per follia d’amore, di annullamento, “vittima sacrificale” allo stesso modo di Matteo come di Vittorio.

Prima di venire inabissata in un inferno di negazione di sé, lei, Sonia, è forma allo stato puro, intensa e rappresentabile artisticamente: quando Vittorio la conosce, lei fa la modella per alcuni giovani pittori; in effetti i trascorsi artistici di Garrone, pittore anche lui, tanto mettono in luce l’aspetto rappresentativo dell'”oggetto” desiderato e forse un gran bene fanno anche alla rappresentazione così studiata e acutamente visiva delle sue opere. Si parla di inferno perché c’è una condizione esistenziale che non permette vie di fuga, se non attraverso la morte; perché c’è continua carenza di luce e la forza delle privazioni fisiche e psicologiche, cui entrambi i protagonisti si sottopongono, è la loro inevitabile eclisse. Dal regista più visibilmente ‘noir’ del nostro cinema ecco uscire una trama cupa come le ombre che ritrae, dove scene coinvolgenti fanno da contorno ad una sceneggiatura che spesso esplode quando i due si trovano ad interagire con la vita esterna. In effetti l’autodistruzione presuppone un isolamento autoimposto, un luogo dove i binari della follia possono correre liberamente. Ecco il senso della scena simbolicamente significante in cui Vittorio scrive da dietro le sbarre (malattia) allegoriche della sua dimora (mente): «so come finirebbe…», come ultima e solenne consapevolezza di una sottile rassegnazione all’infelicità. «Se L’imbalsamatore era la storia di un’ossessione, qui racconto una patologia» commenta Garrone, che dice di aver conosciuto la storia reale attraverso una trasmissione televisiva e di averne studiato le caratteristiche con diversi psichiatri, uno dei quali è lo stesso al quale si rivolge Vittorio nel film. Facili paragoni con il Marco Ferreri de La carne si rivolgono a quelle affinità contenutistiche, quelle descrizioni di una passione amorosa che si risolve nel possesso sublimato dell’altro, fino a volerne acquisire lo stesso afflato vitale.

Cannibalismo puro, dunque, o semplice sublimazione di un possesso portato alle estreme conseguenze, è quello che inconsapevolmente guida Vittorio durante le dolci effusioni che rivolge alla sua vittima sacrificale, quelle carezze che lo guidano tra le fessure intercostali della donna, tra gli anelli della sua spina dorsale, sono il veicolo attraverso cui farsi strada al di là della inibizione della carne, dentro di lei, all’interno della sua anima. Magistrale nel film la fotografia di Marco Onorato sempre così squisitamente dark da non farci mai l’occhio e che tanto ci ricorda le atmosfere surreali de L’imbalsamatore. Anche la scelta dei luoghi ha la sua funzione vitale per la storia, come nel primo film si rispolverava la crudeltà architettonica di un quartiere abbandonato nei sobborghi di Napoli, qui è una torre vicentina il teatro di questo amore malato. Tante storie hanno avvicinato l’amore alla tragedia, ma se dividere il bene dal male in taluni casi è cosa assai difficile, qui è a dir poco impossibile: anche etimologicamente parlando siamo nella situazione paradigmatica della passione amorosa: quando parliamo di “ardore”, usiamo spesso inconsapevolmente il verbo “ardeo=brucio” e lo stesso termine “ardor” guarda il caso deriva proprio da “areo=sono secco”, dunque per l’ardore della passione amorosa si brucia sino ad essere consumati dalle fiamme, fino a distruggersi, ad annullarsi. Isolati dal resto del mondo dunque, i due protagonisti si gettano in una lotta al massacro, l’una gettandosi ai limiti dell’anoressia, l’altro distruggendo tutte le certezze della sua vita che non siano lei, Sonia, il suo unico oggetto di desiderio, plasmabile al suo volere, come null’altro nella sua vita lo è stato mai, nemmeno i suoi oggetti di bigiotteria, sempre passibili del giudizio di eventuali compratori. Se Virgilio scrisse “adgnosco veteris vestigia flammae”, è in Marziale che troviamo il senso finale di quest’opera dove leggiamo “nec tecum possum vivere nec sine te”. Quando la storia si è “consumata” quel “non posso lasciarti andare” spiega l’invisibile e indissolubile vincolo di dipendenza che si è ormai venuto a creare. Il tempo è compiuto per la tragedia, ma mai perdoneremo allo sceneggiatore/autore/regista Matteo Garrone di aver edulcorato lo sviluppo estremo di questa storia, tragica all’inverosimile. In effetti il vero protagonista di questa vicenda è attualmente in carcere, destinato a scontare la pena non solo per aver ucciso una persona, ma per averla consumata lentamente, erosa, perché la realtà possa, contro ogni fervida immaginazione, superare di gran lunga ogni finzione scenica.

di Alessio Sperati