In sintesi il problema sarebbe: come trattare visivamente una fiaba? Soprattutto come trattare la fiaba quando in realtà questa sia mito, parabola, apologo religioso, evangelico, zen, islamico, veterotestamentario e simili? La domanda non è affatto peregrina dopo il risultato miserello de La Passione di Cristo, Maghi e viaggiatori di Khyentse Norbu non dà una risposta, perché a sua volta fallisce l’obiettivo di dare una reale consistenza trascendente alle immagini. In quella che vorrebbe essere proprio una riflessione sulla illusorietà dell’immagine-sogno mancano astrazione e trasfigurazione. Eppure Norbu non è uno sprovveduto, conosce il cinema, soprattutto quel cinema in cui attraverso dei complessi meccanismi psichici l’immagine possa arrivare al livello dell’ icona, di un’alta manifestazione spirituale oltre la verosimiglianza. Tra i suoi autori prediletti abbiamo Ozu, Ray Tarkovskij e il Bertolucci di Piccolo Buddha. Nonostante ciò nel suo film non si ravvisa mai una qualità visiva tipica di un’arte realmente religiosa (nell’accezione buddhista del termine), manca la tensione metafisica, la stilizzazione, anzi l’uso di effetti visivi da convenzione spettacolare, soprattutto nell’aneddoto Zen narrato dentro il film, porta quasi alla trasfigurazione in chiave espressiva, al delirio onirico, all’incubo espressionistico (anche se di allucinazione si tratta, nella narrazione, ma non è questo il punto).
Dov’è l’ errore che porta la metafisica a regredire in puro e semplice barocchismo? Nella struttura. La parabola Zen vera e propria, in cui il giovane apprendista mago Tashi, voglioso di fuggire nella terra dei sogni, grazie ad una pozione del fratello Karma, si perde nella foresta e finisce nella casa del vecchio cacciatore Agai e della sua bella sposa Dechi (di cui si innamora) è come foderata dalla storia del giovane Dondup, che vuole abbandonare il Bhutan per andare a lavorare negli Stati Uniti, la terra dei sogni appunto, ma durante il viaggio si invaghisce della bella Sonam e dubita della sua scelta. Il viaggio di Dondup è un chiaro riflesso di quello di Tashi e la metafora risulta troppo esibita e scoperta per convincere, soprattutto per come è risolta dal punto di vista visivo, quindi concettuale. La leggenda, girata come un delirio allucinatorio, acquista un significato troppo netto, preciso, univoco, ben lontano dalla plurivocità di un’arte religiosa, gli effetti visivi non trasfigurano, ma sono un argomento retorico. L’eccessiva facilità con cui identifichiamo Tashi in Dondup, paradossalmente impedisce di unificare i due registri visivi che Norbu utilizza per le due storie (spoglio e quotidiano per Dondup, spettacolare per Tashi).
La dimensione metanarrativa esplicita nuoce al film. I testi religiosi derivano la loro peculiare ricchezza significante dal fatto di essere soltanto narrazione, anzi forma narrante. La stilizzazione è implicita, simboli, prodigi, visioni, così come il quotidiano più umile, acquistano densità proprio in questa semplice stesura formale, niente dietro la forma, tutto dentro la forma, invece Norbu mette le note a piè di pagina, fa una lezione e il film si affloscia. Staccando troppo nettamente narrazione e metanarrazione, apologo e realtà, rinunciando a narrare soltanto e non a spiegare, Maghi e viaggiatori non arriva alla coincidentia oppositorum e tutte le coppie di opposti presenti al suo interno (amore-carriera, modernità-tradizione, immagine realistica-immagine onirica, sogno-realtà) rimangono intoccate nella loro irriducibile polarità. L’illusorietà dolorosa dei sogni non è dimostrata, ma asserita da una messa in scena, questa si, elegante. Forse il vero apologo Zen bisogna cercarlo altrove, in Kitano, Jarmusch, nello splendido Ebbro di donne e di pittura di Im Kwom Taek (uno dei film più belli e sottovalutati della scorsa stagione), dove realmente il vuoto è forma. Qui siamo all’eleganza tipologica del film da festival.
di Francesco Rosetti