«Il cinema finisce sempre per raccontare le stesse cose ma noi continuiamo ad andarci perchè speriamo nella sorpresa». Così recita la voce di Silvio Orlando, guida ed anello di congiunzione tra la quotidianità torinese della Falchera e la realtà surreale dominata dalla Mole Antonelliana, e nessuna citazione sembra essere più appropriata per rendere palpabile l’atmosfera di profonda suggestione onirica offerta dall’ultimo film di Davide Ferrario. Una sorpresa che certo non si annida all’interno degli escamotage narrativi, quanto tra le sfumature del linguaggio o, per essere più precisi, di un esplicativo silenzio. Dopo mezzanotte nasce dalla rara capacità di ascoltare ed assecondare sensazioni e intuizioni, dalla necessità di comunicare e narrare un universo all’interno del quale il sentimento è ben lontano dall’essere didascalico e il cinema si trasforma in pura visione ed immagine, dimentico di nomi e citazioni. Ed è in base a questi principi che ci si può impadronire dell’eterno triangolo amoroso, spogliandolo di quel travolgimento di passioni e tormenti di cui la macchina film è fin troppo colma, per arricchirlo di un’ingenua goffagine prendendo in prestito atmosfere ed intrecci con chiari riferimenti alla Nouvelle Vague senza cadere nel celebrativo.

Ferrerio si permette il lusso di narrare una passione alla Jules et Jim ma lo fa con un tale silenzio ammantato d’onestà da evitare qualsiasi stucchevole ed improbabile tentativo d’emulazione. Allo stesso modo si avvicina al bianco e nero, regalando a Giorgio Pasotti il non semplice compito di vestire i muti, eppur espressivi, panni di un amore alla Buster Keaton fatto di grandi capitomboli e di un finale dal tenero romanticismo. Un tentativo di rappresentare due tra gli elementi di maggior coinvolgimento e discussione, cinema ed amore, all’interno di una Torino sempre in bilico tra realtà e fantasia denudandoli di enfatizzazioni e false suggestioni, giocando su una sottrazione dell’eccesso per permettere all’essenza di apparire al di sopra delle apparenze e delle citazioni. Un’ atmosfera mantenuta regolarmente sulla linea guasi del non-rumore, una recitazione, quella richiesta a Francesca Inaudi, Fabio Troiano e Giorgio Pasotti, basata più sull’espressione corporea che su quella linguistica, quasi per condurci, nuovamente, verso una condizione d’origine in cui l’amore è semplicemente il sentimento destinato a complicare le nostre esistenze ed il cinema ritorna ad essere quella lanterna magica pronta ad illuminare tutte le storie che sentono il bisogno di essere narrate. Un film, quello di Ferrario, che ti rimette in pace con un mondo produttivo non sempre benevolo, che ti aiutano a comprendere come l’avanzata tecnica del digitale non rappresenti solo l’effetto speciale e che il cinema, tornato ad essere espressione artistica, sia destinato a non esaurirsi mai.

di Tiziana Morganti