«Se pensate che sia facile realizzare un film sul commercio delle armi vi sbagliate di grosso. Il mio Lord of War è stato rifiutato da tutte le più grandi case di produzione di Hollywood. Alla fine sono riuscito a realizzarlo solamente grazie a sovvenzioni indipendenti e con la volontà dell’intero cast di abbassare il proprio compenso». Non c’è che dire, Adrew Niccol ha compiuto un vero miracolo. E questo non solamente perché ha avuto la fortuna di trovare in Philippe Rousselet un produttore così paziente e determinato da impiegare un anno e mezzo per rintracciare i fondi necessari ad avviare il progetto, nè per aver conquistato la completa fiducia e la complicità di Nicolas Cage. Il miracolo, quello vero, si nasconde dietro un alto risultato estetico (non è da tutti riuscire a realizzare con soli cinquanta milioni di dollari un film che sullo schermo sembra essere costato duecento) che non cela ed oscura il significato essenziale di questa vicenda, ma lo esalta attraverso delle immagini assolutamente prive di mediazione. The Lord of War, nelle sale dal 18 novembre con 150 copie, ci conduce lungo le strade di un particolare ed inusuale “road movie” della morte e della distruzione di massa, accompagnati da un Nicolas Cage che ostenta una moderna e poco condivisibile filosofia del trafficante d’armi. «Qualcuno dice che il male trionfa perchè nessuno fa qualche cosa. La verità è che il male trionfa comunque», oppure «Il segreto per sopravvivere è non combattere mai, specialmente con se stessi». Questi i principi fondamentali sostenuti da Yuri Orlov che, con espressione impassibile, una seconda vita completa di moglie feticcio, figlio biondissimo ed appartamento di lusso nel centro di New York, se ne va in giro per il mondo destreggiandosi tra le zone grigie della più illegale tra le legalità (almeno sulla carta), vendendo armi con la stessa nonchalance di una lavatrice.

Dalla Sierra Leone trucidata da guerre intestine, passando per una Unione Sovietica post Guerra Fredda dove gli armamenti leggeri sembrano proliferare, fino ai Balcani insanguinati, Andrew Niccol setaccia con attenzione, lungo ben vent’ anni di storia universale e cambiamenti personali, una problematica che è andata ad accrescere drammaticamente, appoggiata da governi consensienti ed assoluti protagonisti. Un messaggio questo che giunge in modo ancora più efficacie grazie al linguaggio visivo e linguistico che non sente minimamente la necessità di epurare o tacere per ingraziarsi un governo che dell’attacco armato ha fatto la sua caratteristica fondamentale. «Mi imbarazza trovare sulle armi che io vendo le impronte del Presidente degli Stati Uniti», confessa Orlov ad uno stupito agente dell’ Interpol (Ethan Hawke). Ed ancora: «Il Presidente ha bisogno di me quando deve rifornire un esercito che non può armare direttamente». Dunque nessuno stupore per un rifiuto di una Hollywood paurosa di fronte al più onesto e diretto film sulla commercializzazione delle armi a poche settimane dall’inizio della guerra in Iraq. Pervaso da una sottile linea di humor nero il film si concentra solo in apparenza sulla individualità del personaggio e sulla sua responsabilità. Lo sguardo è direzionato con maggior sicurezza sui governi consensienti, coloro che acquistano e coloro che vendono ben attenti ad intralciare qualsiasi tentativo di creare una più stretta e fattibile regolamentazione internazionale.

E proprio per dare maggior forza a questo concetto Nicolas Cage e Andrew Niccol hanno accettato di abbinare la loro immagine ed il percorso del film alla campagna del “Control Arms” sostenuta da Rete Disarmo ed Amnesty International volta ad ottenere proprio la ratifica di un trattato internazionale sul commercio d’armi. Un problema che, visti gli ultimi dati riportati dalle associazioni, coinvolge paesi come Africa, Asia, Medio Oriente ed America Latina capaci di spendere in media ben ventidue miliardi di dollari per l’acquisto di armi. Una somma che in molti casi avrebbe permesso di eliminare problemi come l’analfabetismo, la mortalità infantile e materna. Ma, se pensiamo di eludere film e problematica pensando che il fatto in sé e per sé non ci coinvolga direttamente, siamo nella direzione sbagliata. Il nostro paese in questi ultimi anni non si è certo sottratto al business (nel mondo ci sono trecentosessantanove milioni di armi leggere ed ogni anno ne vengono prodotte otto milioni, una ogni dieci persone) tanto che già nel 2001 era il secondo esporatore al mondo di armi leggere e, tra il 1999 e il 2003, ha attuato esportazioni per un valore di un miliardo e cinquecentosessantotto milioni di euro, destinandole spesso a paesi accusati di violazioni di diritti umani. Sicuramente quanto basta per non nascondersi dietro un dito.

di Tiziana Morganti