In uscita da domani “Educazione siberiana” del regista premio Oscar

«Un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore può amare». È la frase preferita da Gabriele Salvatores, che nel suo film Educazione Siberiana nonno Kuzja (Malkovich) cerca di inculcare nella mente del giovane nipote Kolima. «Se seguissimo questa regola – dice il regista – vivremo tutti meglio».

Tratto dall’omonimo romanzo di Nicolai Lilin, coprodotto da Cattleya con Rai Cinema (nelle sale al 28 febbraio) il film, costato 9 milioni di euro, è accompagnato dalla suggestiva colonna sonora di Mauro Pagani, con splendide fotografie e scenografie. A parte l’eccellente performance di John Malkovic, gli altri protagonisti sono le giovani e brave promesse Arnas Fedaravičius, Vilius Tumalavičius, Eleanor Tomlinson, Jonas Trukanas, Vitalji Poršnev. La storia si svolge nel sud della Russia, in una città ghetto per criminali di varie etnie, dove due bambini di dieci anni, Kolima e Gagarin, crescono insieme, amici per la pelle. Nonno Kuzja insegna loro il furto, la rapina, l’uso delle armi, regolati da una sorta di codice d’ onore, a volte persino condivisibile, che non va tradito per nessun motivo.

Un’altra frase del film che lascia il segno è «La fame viene e scompare, ma la dignità, una volta persa, non torna più», in contrasto con questa educazione criminale che Nicolai Lilin ben descrive in questo suo primo romanzo sulla sua infanzia e adolescenza all’ interno di una comunità di “criminali onesti” siberiani, così come loro stessi amano definirsi. La storia si svolge in una regione del sud della Russia e abbraccia un arco di tempo che va dal 1985 al 1995, con la caduta del muro di Berlino e la conseguente sparizione dell’Unione Sovietica. La storia di questi ragazzi che passano dall’infanzia all’adolescenza e della comunità in cui sono cresciuti diviene una storia universale che, al di là delle implicazioni sociali, acquista un significato metaforico che riguarda tutti noi.

«Ci siamo ispirati ai personaggi, alle situazioni e al mondo raccontato da Lilin per descrivere l’eroica e disperata resistenza dei discendenti dei guerrieri Urca, originari abitanti delle grandi foreste siberiane – spiega Salvatores -, all’invasione del consumismo e della globalizzazione. E, soprattutto, alla storia di un gruppo di ragazzi che affronta uno dei problemi più complessi della nostra vita: il diventare adulti». È un mondo di contrasti, come quando, nell’unico spazio libero lasciato dai palazzi grigi e tutti uguali di un quartiere di architettura sovietica, una piccola giostra diffonde dai suoi altoparlanti la musica di David Bowie.

Per l’autore del romanzo non è importante che l’approccio storico del film sia realistico. «Non è un documentario – sottolinea Lilin -, ma il racconto di storie umane, l’esperienza di tutta la Russia dopo la caduta del Muro. Il film è già la revisione di una revisione letteraria molto libera, universale, adattabile a ogni parte del mondo, soprattutto al Medioriente». «Il libro è ricco di emozioni – spiega Stefano Rulli -, con Petraglia abbiamo dato più peso al personaggio di Gagarin che meglio evidenzia la difficoltà, per chi si attacca alle radici, di trovare un senso alla propria vita dopo la caduta delle ideologie. Lui rompe con le tradizioni, attaccandosi a una nuova morale laica: la ricerca forsennata dei soldi».

Questa sorta di ‘Far east’, questo ambiente di frontiera con regole proprie, hanno colpito Salvatores. «Soprattutto la filosofia e l’etica di questo gruppo criminale, profondamente legato alla natura e alle sue regole, a volte anche crudeli – spiega -. Mi piaceva raccontare l’eroica resistenza di un’etnia destinata a scomparire di fronte al progresso, alla globalizzazione, in un film epico, il mio ‘C’era una volta in Siberia’. Abbiamo girato in Lituania, nei pressi di Vilnius, ricostruendo lì un angolo di Russia di quel decennio, con costumi, oggetti, mobili d’epoca. Ci sono voluti due anni tra preparazione e realizzazione».

Per il ruolo di nonno Kuzja cercava una persona con un forte carisma, con la stessa autorità e autorevolezza del personaggio, che ne lasciasse emergere la pericolosità, un attore non allineato ai valori e ai comportamenti comuni. «Con Malkovich siamo partiti entrambi dal teatro, dalla musica, abbiamo più o meno la stessa età,  insieme abbiamo costruito questo nonno come fosse l’ultimo dei mohicani, estremo difensore di quei valori che stanno crollando giorno per giorno». Non lo considera un “cattivo maestro”. «L’importante – dice – è che i maestri ci siano. Per dare ai loro allievi la possibilità di confrontarsi, di decidere con la propria testa, quindi di crescere. In questo mondo di consenso totale ci vuole qualcuno che abbia il coraggio e l’autorità per dire no».

«Sono un grande lettura di storia russa – spiega Malkovich -, non sapevo nulla di questa comunità siberiana, mi ha sorpreso e affascinato, ho seguito attentamente la scrittura della sceneggiatura». Dei tatuaggi che ricoprono quasi per intero il suo corpo nel film dice: «Hanno avuto un’importanza grandissima, raccontano molto del mio personaggio. Il costume è la prima cosa che vede lo spettatore, io lavoro sempre a stretto contatto col costumista». Dice di aver avuto ottimi educatori: «Ho avuto maestri meravigliosi, molto importanti nella mia vita. Ho imparato molto anche tra i colleghi, più anziani e più giovani di me».