Mettiamo un thriller contaminato da atmosfere horror, aggiungiamo un Jean Reno d’annata dotato di pistola e sguardo torvo, misceliamo il tutto con una Parigi eternamente buia e fumettistica e tutto quello che otterremo sarà un nuovo action movie caratterizzato da infiniti finali. Ecco, in sintesi, la definizione di un film che solo a tratti riesce ad interessare e coinvolgere e che nemmeno la presenza di un attore di fama ed esperienza come Reno riesce a far decollare completamente. I problemi de L’impero dei lupi, tratto dall’omonimo romanzo di Grangè e diretto da Chris Nahon risiedono probabilmente proprio nell’aver voluto maneggiare troppi elementi narrativi a prima vista discordanti tra di loro e nell’aver indugiato con una certa piacevolezza nella commemorazione dei classici del genere. Ed è così che mentre s’intrecciano fantapolitica, lotta al terrorismo, esperimenti per sovrapporre nuove personalità, la caccia ad una donna misteriosa dalla labile memoria e l’inaspettato incontro con il sanguinario gruppo dei lupi grigi, s’intravedono nelle ombre scure di una città notturna le tracce di un indimenticabile Leon e di una indomita Nikita proiettati lungo I fiumi di porpora.

Riferimenti che certo non possono essere casuali se si basano su un Reno impegnato a rivestire i panni del suo ennesimo eroe dannato eternamente in bilico tra lecito ed illecito e su di una giovane Arly Jover a cui è affidato il compito di dare corpo ad una ignara terrorista che, una volta riacquistata la memoria, torna in possesso delle sue doti da killer e di un passato che l’ha vista oggetto di una “educazione” mirata a trasformarla in una macchina da guerra. Ma a questo punto, pur volendo ignorare tali caratteristiche, il film non riesce ad offrire molti punti a suo favore capaci comunque di mantenere alto il pathos e l’attenzione. Nonostante narrativamente tutti i nodi vengano sciolti solamente a dieci minuti dalla fine proprio come è nei dettami di un buon thriller, Chris Nahon corre il rischio di arrivare solo al punto focale della vicenda. Il pubblico, infatti, frastornato da cadaveri brutalmente torturati alla Seven, impegnato nel tenere le fila di elementi troppo spesso accennati e poi abbandonati, proiettato in ambienti non sempre plausibili, impressionato dalla chiara morte di Reno e dalla sua misteriosa resurrezione potrebbe abbandonare il ragionamento, sempre che ce ne sia uno, prima di trovarsi di fronte ad un epilogo frettoloso e deludente capace di dimostrare come, a volte, l’adattamento di un romanzo non riesca bene nemmeno al suo autore.

di Tiziana Morganti