Gli attori carcerati dei Taviani vincitori dell’Orso d’Oro

«Se volete cambiare le cose mandate libri agli istituti penitenziari». Se lo augurano due ex detenuti, Salvatore Striano e Fabio Rizzuto, tra i protagonisti del film Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino, coprodotto con Rai Cinema e ora nelle sale distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti.

Il film, che riprende la messa in scena da parte dei detenuti del carcere romano di Rebibbia del Giulio Cesare di Shakespeare, è interpretato dal vero regista teatrale dell’istituto penitenziario, Fabio Cavalli e dai veri carcerati  Cosimo Rega, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vittorio Parrella, Rosario Majorana, Vincenzo Gallo, Francesco De Masi, Gennaro Solito, Francesco Carusone e Maurilio Giaffreda, l’insegnante di teatro del carcere.

L’emozione che si prova nel seguire le scene girate tra le sbarre da detenuti “veri”, che nulla hanno da imparare da tanti attori professionisti, nei loro dialetti, monta ancor più ascoltando le parole semplici e forti di due dei protagonisti, ex detenuti, seduti accanto ai registi alla presentazione del film. «Fare cinema mi ha fatto sentire libero – dice il corpulento Rizzuto (un sorta di Asterix dalla parlata romanesca) -. Ho imparato più in questi tre anni che faccio teatro che in quarant’anni di vita, recitare ti fa sentire libero ed è quello che voglio fare ‘da grande’. Quando recito  mi sembra di potermi perdonare».

Striano, che è passato dal carcere minorile a Rebibbia, dove si è riscattato, (è libero con l’indulto del 2006) c’è tornato ora da attore professionista (ha avuto una parte in Gomorra) solo per recitare nel film il ruolo di Bruto. «Quando ho varcato quella soglia mi sono come dimenticato che ero un uomo libero – racconta -. Così un giorno mi sono addormentato e, al mio risveglio, ho avuto davvero paura di essere ancora una volta dentro. Il teatro ci ha dato la possibilità di cambiare modo di vivere tra le sbarre».

«Quando siamo entrati a Rebibbia per vedere L’Inferno di Dante rappresentato dai detenuti siamo rimasti fulminati – raccontano i fratelli Taviani -. Erano della sezione di “alta sicurezza”, detenuti per mafia, camorra, ‘ndrangheta, molti segnati dalla condanna ‘fine pena mai’. C’era in loro la forza drammatica della verità e anche la sapienza di attori, dovuta certo a qualità innate ma anche al lavoro costante e sapiente del loro regista interno, Fabio Cavalli. Lì è nata l’idea del nostro film».

«In quel carcere abbiamo trovato talento e umanità. Abbiamo scelto il Giulio Cesare di Shakespeare perché contiene elementi come la congiura, il tradimento, la morte, che fanno parte del passato di tutti loro. Nel rappresentarli hanno aggiunto la loro memoria drammatica, colpevole, e la loro umanità – spiega Vittorio – . Con loro si è creata la complicità di quando cerchi una scheggia di verità attraverso un’opera».

Durante le riprese i due registi provavano affetto per i loro nuovi attori, ma non potevano dimenticarne le colpe. «Sentivamo che attraverso Shakespeare riuscivamo a tirar loro fuori emozioni che purificavano in qualche modo quello che avevano fatto – dice Paolo -. Sono esseri umani che dobbiamo comunque rispettare. La cosa piu’ emozionante è stato quando, alla fine delle riprese ci hanno gridato: da domani niente sarà più come prima».

Nel carcere di Rebibbia ci sono cento detenuti che svolgono attività teatrali e i loro spettacoli sono stati visti da 22.000 spettatori. «È una fortuna che qui ci sia la possibilità di fare attività teatrale, scolastica – ricorda Rizzuto -. Noi invece di parlare dei processi ripetevamo le battute: questo vuol dire che il progetto funziona». «A Rebibbia puoi scegliere se laurearti o diventare artista, ci sono tante attività ricreative – aggiunge Striano -. Ora bisognerebbe aiutare altri detenuti meno fortunati, come quelli del carcere di Reggio Calabria che non hanno neppure una biblioteca e passano le giornate a parlare solo dei loro reati».

Il film si conclude con i detenuti che dopo lo spettacolo tornano nelle celle. Anche Cassio, uno dei protagonisti più bravi. Sono molti anni che è in carcere ma stanotte la cella gli appare diversa, ostile. Resta immobile. Poi si volta, cerca l’occhio della macchina da presa e dice: «Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione».