Secondo capitolo di una trilogia sulle divisioni sociali iniziata dal regista danese Per Fly nel 2000 con Bænken(mai distribuito in Italia), L’eredità è un film sulle dinamiche e sulle conseguenze della scalata al potere. La vita di Christoffer cambierà irrimediabilmente all’indomani del suicidio del padre, proprietario di un’importante acciaieria a Copenaghen. Costretto dalle pressioni materne a prendere il comando delle fabbriche, il giovane erede sembra da subito conscio di quello che, da lì in avanti, finirà inevitabilmente per perdere. Lo scetticismo iniziale, dunque, non è semplicemente riconducibile ad una mancata volontà ma, come poi si evidenzierà nel corso della narrazione, ad una consapevolezza di progressivo inaridimento di cui Christoffer (un ispirato e crepuscolare Ulrich Thomsen) pagherà le conseguenze. Prodotto da Lars von Trier e vincitore del premio alla Miglior Sceneggiatura (dello stesso Per Fly, in collaborazione con l’autore di Festen, Mogens Rukov) al Festival di San Sebastian, il film è tutto incentrato sul costante dissidio interiore del protagonista, trovatosi improvvisamente a combattere con l’ambizione personale e il progressivo logorio del rapporto con l’amata moglie Maria (Lisa Werlinder) e, ancora, con la volontà di mantenere inalterato lo status della famiglia di contro al dispiacere, sincero, di dover sfoltire con massicci licenziamenti il corpo operai per salvare l’impresa dal tracollo finanziario. Stilisticamente vicina ai crismi del “Dogme95” (ma per molti aspetti lontana dai suoi dettami: uno su tutti la presenza dell’accompagnamento musicale extradiegetico, tra l’altro splendido, curato da Halfdan E), la pellicola di Fly sembra ispirarsi all’Amleto shakespeariano sia per le dinamiche di svolgimento sia per la caratterizzazione di figure come, ad esempio, quella della gelida e calcolatrice Annalise (Ghita Nørby), madre di Christoffer. Spietato e al tempo stesso distaccato sguardo su una famiglia “regnante” e sull’ascesa tragica del suo rampollo (si pensi a tal proposito alla simbolica sequenza dell’investitura, con l’erede presentato agli operai/sudditi dall’alto verso il basso), il lavoro del regista quarantaquattrenne (al suo terzo lungometraggio) non scade mai nei facili patetismi e mantiene sempre viva una tensione di fondo di cui sarà difficile disfarsi. Vincitore di sei riconoscimenti (Miglior Film, Miglior Regista, Migliore Attore Protagonista, Miglior Attrice non Protagonista, Migliore Sceneggiatura Originale) su nove candidature ai Robert Awards, gli Oscar danesi.

di Valerio Sammarco