Hazanavicius rinuncia al colore e al sonoro. La critica è entusiasta

Abbasso il 3D, i suoi fastidiosi “occhialetti” e i sempre più rumorosi effetti speciali. Evviva il tenero cinema muto in bianco e nero! Verrebbe da esclamare così dopo aver visto The Artist, una vera ‘chicca’ senza colori e dialoghi, che cattura, diverte e commuove (e andrà agli Oscar), del regista Michel Hazanavicius che la distribuzione BIM porterà il 9 dicembre nelle sale. Sarà per la bravura e l’affiatamento dei protagonisti, Jean Dujardin e Berenice Bejo (moglie del regista), con il notevole e divertente supporto del cagnolino Jack, ma l’ora e quaranta del film scivola piacevolmente via, in un silenzio surreale, dove solo la musica fa da contrappunto all’azione.

Hazanavicius sognava da tempo di realizzare un film muto, come fecero i leggendari Hitchcock, Lang, Ford, Lubitsch, Murnau, Wilder. «Mi sembrava una sfida magnifica – racconta il regista, a Roma per presentare il film – non volevo riprodurre la realtà, non sono un cineasta naturalista. Mi piace creare uno spettacolo che dia piacere alla gente. Mi interessa la stilizzazione della realtà, la possibilità di giocare con i codici».

Così ha preso forma l’idea di un film ambientato nella Hollywood di fine anni ’20 e inizio anni ’30, muto e in bianco e nero, che ha  scritto in soli quattro mesi. La storia si svolge a Hollywood nel 1927, dove un divo del cinema muto all’apice del successo (Jean Dujardin) con l’avvento del sonoro rifiuta orgogliosamente di fare film parlati e finisce nel dimenticatoio, mentre una giovane comparsa (Bérénice Béjo) viene proiettata nel firmamento delle stelle del cinema e i loro destini si incrociano.

L’autore ha messo in primo piano sentimenti come l’orgoglio e la vanità, per dare una visione dell’amore molto all’antica, molto pura, che cattura e commuove lo spettatore. Contrariamente al solito, nella sceneggiatura non ha aggiunto i dialoghi. «È un film davvero contro corrente, perfino anacronistico – spiega -. Abbiamo lavorato nel periodo della follia per Avatar, in piena esplosione 3D. Avevo la sensazione di essere alla guida di una ‘Duecavalli’ circondato da auto di Formula 1 che mi sfrecciavano accanto a tutta velocità!».

Per alimentare la storia si è documentato a fondo sulla Hollywood degli anni ’20 e ’30, leggendo libri e biografie di attori e registi dell’epoca, inserendo nel film echi di Douglas Fairbanks, Gloria Swanson, Joan Crawford e anche echi lontani della storia di Greta Garbo con John Gilbert. «Non volevo assolutamente fare un film ironico, una parodia, come nel mio precedente OSS 117 – spiega -.  Gli aspetti esilaranti fanno sempre da contrappunto a storie molte commoventi. Mi è sembrata la vena più consona al tipo di film».

Ha girato nei luoghi mitici di Hollywood (a casa dove abita Peppy e il letto in cui si sveglia George Valentin sono quelli di Mary Pickford) impedendo agli attori di lavorare sul testo. «Hanno lavorato su altre cose, di sicuro sul tip tap! Abbiamo parlato molto dei personaggi, delle situazioni, delle sequenze, dello stile di recitazione. È come se si fossero trovati privi di punti di riferimento. Tutto doveva essere reso sul piano visivo, senza l’ausilio delle parole, dei sospiri, delle pause, delle intonazioni, di tutte quelle variazioni che abitualmente usano gli attori. Il loro compito – ammette – è stato difficilissimo».

Per la colonna sonora Hazanavicius si è rivolto come al solito a Ludovic Bource. «La nostra collaborazione è stata un po’ più complessa del solito perché – spiega – in un film del genere, la musica è quasi onnipresente e deve soprattutto tener conto di tutti gli umori, ma anche di tutte le variazioni e le rotture, di tutti i conflitti e i cambi di direzione di ciascuna sequenza. Abbiamo girato il film in 35 giorni, alla fine eravamo sfiniti, ma eravamo a Hollywood, un manipolo di francesi in mezzo agli americani, ma una squadra. E avevamo fatto il film che speravo. Ho vissuto molti momenti forti. E spero che non siano finiti!».

Dujardin è stato subito conquistato dalla geniale idea del film muto e dal gioco dei destini incrociati dei protagonisti. «Senza i dialoghi resta l’essenziale – dice l’attore -, la recitazione e l’emozione pura, amo recitare con tutto il corpo, ho dovuto imparare anche il tip tap». Per il suo divo del muto si è ispirato a Douglas Fairbanks: «Sfavillante, pieno di brio, non esitava a ammiccare agli spettatori, è stato molto divertente imitarlo. Alla fine ho scoperto che la mancanza dei dialoghi era quasi un vantaggio: bastava pensare all’emozione perché si manifestasse, nessuna parola la inquinava».

La Bejo ha dovuto ingaggiare un coach, è andata alla Cinémathèque a vedere i film muti, ha letto biografie di molte attrici, di Frank Capra, studiato a fondo le pose di Joan Crawford e Marlene Dietrich. Poi non ha dovuto fare altro che dimenticare tutto quel lavoro e calarsi nel personaggio dall’interno. «Mi chiedevo come avrei potuto esprimermi senza voce – racconta Berenice -, è stata un’emozione fisica. Lo sguardo di Michel era essenziale, mi sono lasciata guidare totalmente da lui. Jean è un compagno generoso sul set, tenero e attento, non provavo vergogna a fare gesti melodrammatici, a cadere tra le sue braccia».