Prendete il caro, vecchio ed oramia desueto genere cappa e spada con l’intenzione di riproporre un successo del passato. Collocatelo in scenografie ed ambientazioni che sembrano prese in prestito da Robin Hood, Il principe dei ladri (1991). Modernizzatelo con la presenza del giovane Vincent Perez dagli atteggiamenti “gigioneschi” e dalle atletiche coreografie di combattimento. Poi tentate di renderlo appetibile per il mercato internazionale grazie alla presenza di una Penelope Cruz dalla tenue incapacità espressiva nei panni dell’indipendente e moderna Adeline. Per finire arricchitelo con dialoghi ed atteggiamenti dalla presuntuosa ambizione di innovazione. Unendo ed amalgamando perfettamente questi ingredienti “fondamentali” otterrete, senza molta difficoltà, uno dei prodotti cinematografici più alienanti di questi ultimi anni, pari solo a La donna più bella del mondo, realizzata nel 1956 esclusivamente per esaltare la procacità della Lollobrigida e punire il talento di Vittorio Gassman. Ed è così che il giovane Fanfan, sempre pronto a difendere una buona causa e ad insolentire il potere costituito, abbandona l’aurea leggendaria, che lo aveva accompagnato dal XVIII secolo, per soddisfare le ambizioni registiche di Gerard Krawczyk e di scrittura di Luc Besson.

Ma quest’eroe tutto francese, già celebrato nella versione di Chistian-Jaque del 1952, acquista una velocità che troppo diluisce e disperde le emozioni tanto da renderle invisibili, ed un ironia che non aggiunge nuovo sarcasmo all’originaria atmosfera farsesca, ma che tocca apici di esasperante ridicolezza tra atmosfere impermeate di “zuccheroso” romanticismo ed una vaga, pungente satira alla Mel Brooks. Ma nonostante le buone intenzioni di Jean Cosmos e Luc Besson, che hanno collaborato al “restauro” della sceneggiatura originale, Il tulipano d’oro rimane irrimediabilmente distante dall’influenza del pungente humor di La pazza storia del mondo (1981). La sensazione che si avverte è quella di trovarsi di fronte ad un fine non raggiunto, alla volontà di spingersi oltre, calcare eccessivamente le atmosfere per poi tornare irrimediabilmente suoi propri passi, relegando a Fanfan il noioso compito di elargire, tramite voce fuori campo, le oramia fin troppo note perle di saggezza sull’inutilità dei conflitti e su la totale stupidità di coloro che li causano, a debita distanza di sicurezza. Un opacità che risulta meno intensa nelle caratterizzazioni di Luigi XV, Tranche-Montagne e Fier-a-Bras, ma che si ricompatta intorno alle figure di Fanfan ed Adeline, impegnati nello svolgimento di una vicenda mono-emozionale. Non di pessima realizzazione (apprezzabile la fotografia e la suntuosità dei costumi) tanto da gridare allo scandalo, nè innovativo da stupire, Il Tulipano d’oro si inserisce all’nterno di un oblio artistico. Un film di cui avremmo potuto fare tranquillamente a meno e che, ad essere pessimisti, tra un paio di mesi avremo dimenticato. In fondo a Cannes l’hanno già fatto.

di Tiziana Morganti