La clastrofobica invadenza del ghiaccio delimita un confine territoriale che, nel falso candore di un bianco accecante, trova immobilità, staticità di morte preannunciata. Una sventura che si manifesta nella silenziosa noncuranza e nella mal celata cecità di una comunità cristallizzata all’interno di una prospettiva paesaggistica oppressa dalla vastità del mare e dalla possenza della montagna. Ed è tra le braccia di una natura “nemica” che cattura la vita e costringe l’uomo ad un irriversibile isolamento, che la diversità fisica ed interiore prende forma nella piena incoscienza della sua inestimabile ricchezza. Noi, con i suoi diciassette anni, una vita familiare disgregata ed irregolare, un dilagante disinteresse per le istituzioni scolastiche e l’irrefrenabile desiderio di fuggire dalla sua stessa staticità, rappresenta l’elemento unico ed incomprensibile. La linea di confine tra stupidità e genialità. Il disordinato e confuso bisogno di azione di un anti eroe. Il ritratto di un enigmatico perdente che annaspa nella fallimentare ricerca di una soluzione. Il desiderio di una fuga verso un altro non ben determinato che si dissolve sotto la morsa di neve che appesantisce i passi. Dagur Kari registra l’immagine di un Islanda impietosa e sorda ai richiami della vita e della natura che palpita al di sotto del ghiaccio. Un microcosmo isolato, in un universo circoscritto dissimile da qualsiasi parte del mondo conosciuto, ma che regala spessore e particolarità ad una vicenda d’ incapacità giovanile simile a mille altre. Una storia che, priva di questa continua osmosi di odio ed appartenenza tra Noi e l’ambiente, ci avrebbe costretto ad osservre il ritratto scontato di uno tra i mille “figli” disadattati di una Gioventù bruciata. Ma la narrazione, strutturata esclusivamente attraverso un affiancamento di idee e situazioni, impone il suo tocco originale, regalando la possibilità di abbandonarsi ai silenzi, alle atmosfere un pò surreali di una battaglia che i protagonisti, l’uomo e la natura, conducono con muta, ovattatta ostinazione. Permette che il candore traslucido delle superfici compatte si impadronisca delle pupille, tanto da renderle refrattarie ai colori di un mondo “normale”. Nessun colpo di scena giunge improvviso a risvegliarci dall’ipnotica attesa che qualche cosa accada, che il ghiaccio si sciolga per lasciare spazio alla vita. Rimaniamo avvolti, abbracciati da una vicenda che si srotola con una spasmodica, necessaria lentezza, fino ad essere risvegliati da un natura che si abbatte con violenza. Una furia naturale che cancella e distrugge, punisce ed innalza nel più sublime ed incomprensibile inno alla libertà.

di Tiziana Morganti