Esce il 19 febbraio “Il figlio più piccolo”, film con il quale Pupi Avati chiude la sua personale trilogia sulla famiglia

L’unico valore per resettare il nostro mondo moralmente in declino è l’ingenuità. Pupi Avati è talmente indignato per questi ultimi anni così “indecenti”,  carichi di volgarità  e scorrettezza, che cerca di ricandidare l’innocenza col film “Il figlio più piccolo”, nelle sale dal 19 febbraio. Il prolifico regista bolognese  chiude anche la trilogia sulla figura paterna puntando  il dito sul  “furbetto del quartierino”. Uno dei tanti che salgono oggi agli onori delle cronache finanziarie nostrane, ma ancor più infame perché stavolta è un padre truffaldino che per salvarsi dal tracollo tradisce il figlio minore, credulone e sognatore,  scaricandogli addosso con l’inganno milioni di debiti (e forse qualcosa di simile nel mondo del calcio è avvenuto).

Una commedia amara, prodotta dalla DueA di Antonio e Pupi Avati con Medusa che lo distribuirà in circa 300 sale dopo il Festival di Berlino e dopo Sanremo. Protagonista un Christian De Sica finalmente sdoganato dall’ormai usurato ruolo del simpatico cialtrone -macchietta dei cinepanettoni, che a 59 anni riesce a dare il meglio di sé nei panni anche qui di un filibustiere arricchito in fretta, ma seriamente odioso e alla fine anche patetico. Avati (che ha trasformato questa storia anche in un libro) anche stavolta non ha sbagliato una mossa nella scelta del cast. A partire dagli attori collaudati come Laura Morante, moglie stupidella e musicista fricchettona fallita e sognatrice, abbandonata con due figli piccoli pochi attimi dopo un matrimonio d’interesse più che riparatore  ma nei secoli fedele, e Luca Zingaretti, viscido “consigliori” del rampante manager.

La vera rivelazione è Nicola Nocella,  l’ingenuo e disarmante “figlio piccolo” pescato tra i neodiplomati dello storico Centro sperimentale di Cinematografia diretto da Giancarlo Giannini, che sforna attori veri e meriterebbe di essere rivalutato. Ottima anche la prova del comico romano lanciato da “Zelig” Maurizio Battista, misurato ma sempre divertente nei panni del fedele autista – factotum del capo; di Sydne Rome, svampita musicista amica di mammà, e ancora Pino Quartullo, Massimo Bonetti, Fabio Ferrari, Manuela Morabito, Alessandra Acciai, Alberto Gimignani.

«Voglio frequentare solo chi crede nei sogni – dice il regista -, tornare a credere negli altri, d’ora in avanti mi occuperò solo del presente,  deve essere sorvegliato perché è molto, molto preoccupante».  Ha una sua ricetta anche per risollevare il nostro cinema: «Meno parole, convegni, dibattiti e più creatività». «I film si fanno con le storie – sotiene Pupi – e di valide ce ne sono poche, di attori straordinari invece ne abbiamo tanti. Bisogna esercitare la creatività e non piangersi addosso, andare meno alle manifestazioni, alle cene, alle prime». È convinto che anche di ragazzi sognatori ce ne siano tanti: «Chiedo a tutti cosa fanno i genitori e già capisco. Nei miei film racconto sempre l’inadeguatezza perché è il sentimento che conosco meglio e mi fa sentire ‘alternativo’. Quando scrivo e dirigo cerco le emozioni, non c’è calcolo». Per questo a chi lo stuzzica sul recente sexgate che ha portato alle dimissioni il sindaco di Bologna replica: «Chi se ne frega, è una storiellina, non per un mio film».

Christian ha ritrovato l’amico Pupi a trent’anni dal primo film insieme, “Bordella”. «È come lavorare in famiglia, il suo cinema mi ricorda quello di papà – racconta -, ha una ipersensibilità quasi femminile, io sono astuto lui ingenuo. A 59 anni me lo sono meritato questo personaggio». Dopo 26 film di Natale sembra stanco della solita minestra, anche se condita da parecchi milioni: «Qualcosa bisognerà cambiare – dice -, magari anche me. Non li rinnego perché la notorietà che mi hanno dato mi ha permesso di fare libri, musical, teatro. Ma al mio 95esimo film Pupi mi ha permesso di fare il mestiere che so fare».