C’era una volta Closeau, il più improbabile ispettore del mondo, goffo nel fare e, quel che è peggio, nel congetturare, incapace a tutto ma capace di sostenere il peso del mondo. A suo modo, s’intende. Quando nacque, nei primi anni Sessanta, Blake Edwards pensò di divertirsi a mescolare e a fare un po’ impazzire come panna la commedia sofisticata e lo slapstick e pensò che il suo ispettore avrebbe dovuto avere il volto di Peter Ustinov. Così non fu, e la (seconda) scelta cadde su Peter Sellers che ne fece molto più di un personaggio, lo eternizzò e molto al di là dei sei film successivi. Fu il solito bacio del caso, cieco e fortunato. Oggi, che La Pantera Rosa torna in versione ritemprata e adattata alla contemporaneità, fortissimamente voluta da Steve Martin che scrive (con Len Blum) e si cala nei panni di Closeau, non può dirsi lo stesso. Stavolta il caso non c’entra nulla e meno che mai la fortuna: c’entrano solo il professionismo di tanti e le scelte a tavolino di qualcuno. Perché, si sa, oggi il piatto piange (al cinema più che mai) e così la furia del reinventare, rifare, ritentare afferra tutto e tutti e scampare alla frenesia sembra troppo arduo. Non c’è riuscito un attore come Martin, già protagonista di un remake ke non da poco, quel Padre della sposa in cui ha vestito i panni che furono di Spencer Tracy, che ha titubato all’inizio («Quando mi è stata offerta la parte, ho detto “no”. Ma ci ho pensato e ripensato, ho provato a scrivere alcune scene per vedere se riuscivo ad entrare nel contesto e mi sono sembrate divertenti») ma ha ceduto presto.

Non ci ha neppure provato Shawn Levy che arriva dritto dritto da un altro remake (Una scatenata dozzina, sempre interpretato da Martin) e che oggi dirige questo, che è in realtà un prequel dei passati film della “Pantera Rosa”, con intenti semplici e chiari: omaggiare attraverso Closeau il cinema muto e la comicità corporale, oltre che, s’intende, aggiungere qualcosa alla tradizione di Edwards piuttosto che misurarsi con essa. Ma come si fa a eludere i paragoni, i confronti, a sbarazzarsi della memoria dell’attonito viso di Sellers? Semplicemente non si fa, si pensa a Sellers e si guarda Martin che, dentro un plot tutto pretestuoso che rimanda alle origini della imprevedibile fortuna dell’ispettore imbranato, ci fa persino sorridere con quel tanto di comicità facile e arcaica che una volta aveva la sua ragion d’essere e che oggi rende lui caricatura, impeccabile, professionale, ma volutamente al di là di ogni confronto con Sellers e in ciò vincente nel suo prodursi in continue gag, nel concedersi al lato più surreale della sua demente goffaggine, nel suo non risparmiarsi neppure nel confronto con i due nuovi arrivati che si danno non meno da fare: Kevin Kline, qui superiore di Clouseau che pensa di poterlo manipolare a suo uso e consumo e ne viene beffato, l’impagabile Jean Renò, che prima di diventarne l’aiutante fedele è una spia al soldo di Kline, Emily Mortimer, fedele segretaria un po’ innamorata, e la popstar Beyoncé Knowles, nei panni di Xenia la tentatrice. Funzionano tutti, a patto di accettare sin dall’inizio il quadro di comicità mordi e fuggi che li incornicia.

di Silvia Di Paola