Il cinema di Alessandro D’Alatri, dopo il successo di Casomai, sta andando verso un insospettabile manierismo. Lo stesso volto in primo piano, quello ironico e scanzonato di Fabio Volo, le tematiche del lavoro, della famiglia e della dignità individuale miscelate più o meno allo stesso modo, la provincia o una città del Nord (in questo caso, Cremona), una canzone che sottolinei i passaggi narrativi e i titoli di coda (dopo Elisa, i Negramaro). Dopo la factory Ozpetek, dovremmo aspettarci i film a la manière di “D’Alatri” cioè carini, vagamente poetici, gradevoli, ma anche un tantino noiosi, con un tasso irritante di ottimismo della volontà? Fatto sta che questo Mario Bettini, trentenne studente di architettura che vive con la mamma vedova, che trova posto come geometra comunale, che si atteggia come un “Alberto Sordi di Brescia”, ripercorrendo le gesta del personaggio dell’attore romano in Una vita difficile aggiornato ai giorni nostri, è simpatico al di fuori del contesto, della tessitura drammaturgica, degli sforzi del regista per confezionare pellicole sempre più cariche di effetti digitali e speciali. Simpatico, punto.

Il resto resta un poco per aria, l’incontro con una studentessa bella e con tanto di borsa di studio, l’amico grillo parlante, gli amici conformisti, gli invidiosi, gli accidiosi e i parenti e gli incontri con il padre morto in mezzo alla nebbia (chi scrive, teme, che l’onesto D’Alatri abbia talmente tante volte visto Otto e mezzo di Federico Fellini, da copiarlo involontariamente…). La classe non manca, si riflette il giusto e ci si diverte, ma resta il terribile dubbio che un mix di Pietro Germi, Dino Risi e del Maestro di Rimini non significa necessariamente aver dato vitalità e nuova linfa alla commedia all’italiana (agrodolce per definizione, in cui i personaggi “vincenti” erano antipaticissimi e forse “lombrosianamente” mostruosi). Ne La febbre, troppe buone intenzioni, troppo gusto, spicciola filosofia da “romantic self made man” di Cremona. Dov’è finita la reale poesia di un piccolo capolavoro come Senza pelle? Non basta declamare i poeti, si sente il compiacimento e non va bene. Se non fosse per la bravura e il sornione viso di Fabio Volo, centodieci minuti di riassunto di un cinema che è difficile rimettere in circolo e nelle sale e che forse va rivisto, a casa (i Dvd e le videocassette non mancano). La nuova commedia all’italiana è di là da venire e forse, arriverebbe inutilmente. La fa, oramai, la televisione.

di Vincenzo Mazzaccaro