Molte persone sono in grado di divenire fisiologicamente dei genitori, ma ciò non vuol dire che tale capacità debba essere esercitata senza alcuna precauzione e dubbio. Infatti, visti anche i sempre più numerosi atti di violenza fisica ed emotiva esercitata sui bambini all’interno delle mura domestiche, alcuni dovrebbero essere seriamente sottoposti a dei duri esami capaci di attestare la loro sanità mentale ed affettiva prima di essere lasciati liberi di procreare. Una tematica questa che, oltre ad essere particolarmente delicata ed attuale in tempi di accese discussioni su embrioni congelati e gravidanza assistita, viene utilizzata da Kevin Bacon per la sua prima regia cinematografica, facendo luce su di una vicenda all’interno della quale il diritto alla procreazione ed il desiderio di maternità si trasforma in oppressione e possessione attraverso il dono di un amore malato di ossessione. Loverboy è la vicenda di Emily Stoll (Kyra Sedgwick) che, dopo aver trascorso un’infanzia trascurata da due genitori fortemente concentrati su loro stessi, cresce costruendo la sua intera vita intorno all’idea di avere un figlio, senza comprendere come il suo desiderio si trasformi lentamente in una vera e propria deformazione mentale.

«Non voglio una casa e non voglio un marito, ciò che desidero veramente con ogni cellula del mio corpo è avere un bambino». Queste le intenzioni espresse da Emily nelle prime scene del film che sembrano porre delle serie basi per un dramma psicologico incentrato sulle ossessioni di cui è oggetto il piccolo Paul, ma che sfortunatamente viene frequentemente disatteso. Nonostante un cast di attori di notevole talento (Marisa Tomei, Sandra Bullock, Matt Dillon, Campbell Scott) capaci di dare spessore ed anima ai loro personaggi, Bacon sembra essere impreparato a gestire una tematica così importante, non riuscendo, in modo particolare, a fondere con una certa armonia situazioni particolarmente ilari, come quelle create dai genitori fricchettoni di Emily, con momenti di particolare drammaticità. Il risultato sembra essere una storia interessante, narrata anche in modo non convenzionale, ma che diluisce in una buona occasione persa anche a causa di una certa pesantezza stilistica utilizzata da Bacon. L’eccessivo utilizzo di ralenti, flou e dell’abusata pratica del flashback fanno di quest’ opera prima un prodotto incompiuto che lascia sfumare le particolarità e le ombre di una storia al femminile non particolarmente conciliante e finalmente lontana dall’essere politically correct.

di Tiziana Morganti