Correva l’anno 1914, l’alba della Prima Guerra Mondiale che aveva visto un faticoso prologo di marce avanti e indietro cui era seguita la stasi dell’immobilizzazione nelle trincee, scavate in fretta, spesso a un passo l’una dall’altra: pochi metri di terra di nessuno pericolosa come un campo minato. Ma dal basso, dai corridoi scavati nel terreno era facile che salissero voci, parole, rumori, canti a volte, dei soldati costretti a sopravvivere come topi prigionieri: di se stessi e degli altri. Della follia della guerra. La stessa che li lasciò lì a spararsi addosso quando erano così vicini che avrebbero potuto parlarsi. Ma, appunto, in guerra non ci si parla, ci si uccide e basta. Eppure qualche volta l’incredibile è avvenuto: i soldati di trincee opposte si sono parlati, hanno ascoltato la stessa musica e persino si sono scambiati lettere e fotografie. Avvenne: dei documenti lo testimoniano. Insieme alla fine che fecero i protagonisti di quegli episodi considerati dei codardi o, nel peggiore dei casi, dei traditori e puniti di conseguenza. Avvenne: nella notte di Natale del 1914 e nella Pasqua del 1915. Nelle trincee opposte marcivano tra gelo, sudiciume e tristezza piccole frotte di soldatini arrivati da ogni dove, finché qualcuno non cominciò a cantare.

Prima di allora, però, dalla trincea tedesca erano comparsi, a decine, alberelli natalizi che Guglielmo II aveva ad ogni costo e nel generale stupore fatto portare in quello squallore perché “Natale è pur sempre Natale” e che i soldati, forse semplicemente per toglierseli di mezzo, misero su, in bella vista. Intanto da un’altra trincea una musica si alzava e un canto rispondeva. Se non fosse tutto documentato, chi potrebbe crederci? Eppure, si sa, la realtà corre spesso ben oltre ogni immaginazione, si bagna nel surreale ma resta realtà. Ma come raccontare questo in un film, facendo in modo che lo spettatore non lo creda frutto di fantasticheria? Christian Carion , regista di Joyeux Noel. Una verità dimentica dalla storia, presentato fuori concorso al 58mo festival di Cannes, candidato francese all’Oscar e in arrivo sui nostri schermi, se lo è chiesto molto tempo fa, quando ancora al suo attivo non aveva neanche un cortometraggio. Si è imbattuto in un libro di Yves Buffetaut (Batailles de Flandres et d’Artois 1914-1918) e, tra quelle pagine ha letto dell’inverno del ’14 e di curiosi episodi di fraternizzazione tra soldati nemici. Di più: di un tenore tedesco, arruolato anche lui, che si mise a cantare per i soldati francesi, di una partita di calcio e dello scambio di oggetti tra soldati di parte avversa nel fazzoletto di terra tra le trincee, dello scambio di lettere (perché gli uni le recapitassero per gli altri), degli alberi di Natale e persino di un gatto che passava da una trincea all’altra, che i tedeschi accusarono di spionaggio e giustiziarono.

Appunto, l’incredibile. Come dice Carion: «A tal punto che risultava davvero difficile per me farlo credere allo spettatore; l’episodio del gatto, poi, ho dovuto persino limarlo, eliminando l’esecuzione perché neppure le comparse ci credevano e molti si sono rifiutati di partecipare alla scena, anche se ovviamente all’animale non sarebbe stato fatto alcun male». Ha limato, Carion, selezionato, ma non ha desistito e per il suo secondo lungometraggio (il primo, Una rondine fa primavera, nel frattempo, pensando, ripensando e documentandosi su questi episodi attraverso gli archivi inglesi, francesi e tedeschi, lo aveva realizzato) ha tentato l’azzardo. Riuscito solo in parte. Perché, se è interessante l’idea di partenza, dell’apologo sulla pace scelta che deve passare per ogni individuo e sulla leggerezza sontuosa della tolleranza che non può che essere rigeneratrice all’infinito, se era persino più interessante il tentativo di tradurre l’assurdo nel racconto di quella quotidianità bellica, di non scansarlo troppo semplicisticamente, risulta, però, troppo carica la storia. Perché già incontrarsi fuori dalle trincee, cantare insieme, parlarsi era molto da rendere credibilmente ma, a questo punto, Carion aggiunge e aggiunge. Troppo. Certo abbastanza per far scivolare la classicità della narrazione in retorica, il tenue naif in stucchevolezza, la bizzarria in pretesto.

di Silvia Di Paola