Valeria spia il mondo e intercetta i particolari che la incuriosiscono. Non si espone mai, interagisce sempre per interposta persona, ma i suoi slanci vitali non sono soffocati, solo convogliati in un modo di fare morboso che non le permette soddisfazioni. Si insinua nella vita di Massimo e Flavia, cerca di sfatare quel che la sua amica Sonia le accorda come qualità: il saper stare da sola, senza bisogno degli altri. All’esordio nel lungometraggio, Paolo Franchi si distingue da altri colleghi al primo film per omogeneità e tenuta autoriale dell’intero progetto. Il suo è un mondo sommesso, silenzioso, tutto zone d’ombra ed emozioni sottopelle, trattenute e non rese evidenti. L’universo sonoro è ovattato, questo mondo non fa rumore perché risuona solo una sorta di silenzio interiore, mai squarciato. Il volto della Bobulova è assolutamente funzionale al progetto, splendidi occhi gelidi racchiusi in un ovale dai lineamenti morbidi, umani. Un volto sul quale vale la pena sostare, nella vana attesa che i lineamenti si sciolgano in un sorriso o s’increspino ulteriormente. Nell’inizio torinese Franchi sembra guardare molto a Kieslowski, per poi traghettare verso atmosfere più sentimental-borghesi tipiche di certo cinema francese alla Sautet (non a caso Brigitte Catillon aveva con lui lavorato in “Un cuore in inverno”). Si concentra troppo sul rapporto tra Massimo e Flavia, rendendo Valeria (forse coerentemente) un mezzo per permetterci di osservarli, un occhio aperto sull’impossibilità di vivere i sentimenti in modo pieno. E l’impressione, nonostante la mancanza di passi falsi e l’estrema cura fotografica, è che a risentirne sia l’intensità generale.
di Giorgio Nerone