L’insostenibile leggerezza dell’essere. Perdonateci la citazione da Milan Kundera ma il succo del nuovo film di Silvio Soldini, ha la pretenziosità di avvalersi di intenzioni letterarie di tutto rispetto. Almeno questo è quello che sembra trasparire dalla sceneggiatura scritta a sei mani assieme a Doriana Leondeff e Francesco Piccolo. La letteratura è infatti la sfumatura che lega i destini di personaggi che si ri-scoprono “fratelli” (in realtà non lo sono, almeno nel vero senso del termine) tutti alla ricerca di una nuova famiglia. E per mostrare la leggerezza esistenziale sopraccitata, Soldini si lancia in una sorta di commedia d’autore parafrasando perfino Almodovar, almeno nell’atmosfera surreale in cui gli eventi si susseguono. Il pretesto iniziale è proprio Licia Maglietta, attrice simbolo del regista milanese, libraria di Genova sempre confusa tra le suggestioni romanzesche e la realtà, tanto da convincersi di far fulminare le lampadine al suo passaggio. Indi si prosegue con il suo, fino ad allora, fratello di sangue che non si scopre tale ma fratellastro di un rappresentante di indumenti che percorre con una Volvo gialla le strade solitarie e assolate della pianura padana (siamo però nei pressi del delta del Po di Goro) somigliante ad una frontiera incantata.

Sommando gli elementi abbiamo materiale per una fiaba moderna dove si interagisce con la tempesta del caso che modifica le vite dei protagonisti. Così l’andirivieni dalla grande città alla campagna romagnola (scelta da Soldini per una questione pittorica) diventa una sorta di via fuga dalla normalità. A questo punto bisognerebbe sottolineare la strategia dei romanzi che la libraia fa passare nelle mani dei personaggi come ricostituente… ma fermiamoci qui. Perché qualcosa comincia a non filare più. Da questo momento in poi, il film dopo un’ellittica magistrale con gag ben concatenate, inizia velocemente la sua parabola discendente. Forse perché i tre sceneggiatori dopo aver giocato a sottrazione con la commedia hanno dovuto trovare un finale soddisfacente e in qualche modo a sorpresa. Così, dopo circa un’ora e venti i cambiamenti meteorologici-esistenziali si rasserenano in un melodramma dal sapore appiccicaticcio. Senza contare le tre o quattro code che sigillano finalmente il tutto. Come mai allora Silvio Soldini si è piccato quando gli è stato fatto notare che l’ellittica del film veniva meno? Probabilmente perché convinto di essere riuscito a gestire con uguale peso commedia d’autore ben recitata (su tutti l’udinese di romagna Giuseppe Battiston) e dramma surreale dal sapore almodovariano. Ma non bastano le quantità di camicie dai colori assurdi e una morte inaspettata e beffarda a farne un capolavoro. Con quaranta minuti di meno e qualche lampo di genio in più, noi avremmo potuto nuovamente bruciare nel vento, invece di mugugnare su un capolavoro mancato.

di Roberto Leggio