Il cineasta Michael Haneke, nato a Monaco di Baviera, ma di cittadinanza austriaca, ha sempre prediletto uno stile narrativo e formale disturbante e attraversato da una cupa violenza estetizzante. Il tempo dei lupi, presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2003 segue la scia dei suoi precedenti lavori, ma dopo venti minuti si capisce la reale intenzione dell’autore: sciupare il suo talento e umiliare l’attrice protagonista, Isabelle Huppert. Lei che aveva interpretato in modo mirabile il precedente film di Haneke, La pianista, portandosi a casa la Palma d’Oro come migliore attrice, si presta ad un sottile gioco al massacro, orchestrato ad hoc: buttata in un inferno da “fine del mondo” in compagnia di valenti attori francesi e non, semplicemente, dopo solo quaranta minuti, esce dal film. Il suo personaggio, Anna, che all’inizio pareva imprescindibile dalla storia, è assolutamente mortificato, quasi inutile. A dirla tutta, sono gli esseri umani del film a risultare pleonastici, perché, in una terra di nessuno, aspettano un treno che non arriva, subiscono restrizioni di tutti i tipi, si scannano per un po’ d’acqua e di cibo.

L’inferno bucolico, le macerie di una guerra improvvisa, un incubo ad occhi aperti che inizia dopo la sequenza dell’arrivo nella casa di campagna, niente è spiegato. L’austriaco mette in scena il futuro che ci aspetta, quando saremo troppi e le guerre e il terrorismo ci toglieranno ogni forma di benessere? Notti e nebbie e poi giornate di sole accecante, prima i volti si riverberano in luci smorte, poi brillano nella chiarità di giornate splendenti. Esercizi di stile di un bravo direttore della fotografia? Spiazzante, assoluto, Haneke potrebbe rendere omaggio a Il silenzio di Ingmar Bergman, se solo osasse un gesto di umiltà nei confronti dello spettatore. La tensione iniziale, invece, lascia il posto a una noia mortifera. Se l’universo sta morendo chi se ne frega che l’utente cinematografico stramazzi sulla poltrona? Anche questa è una spiegazione per un film così concepito. Chi scrive, che ha ammirazione assoluta per un regista che crede ancora che l’autore abbia voce in capitolo in una società orrendamente omologata come la nostra, dovrebbe, in ogni caso, tifare anche per questo film riuscito a metà. Incespicando, mentendo? Nemmeno poi tanto, visto la quantità di filmacci che fanno girotondo nelle sale. E poi vedere la Huppert che fuma una Gauloises, con il volto catatonico di chi ha perso la trebisonda, potrebbe bastare. A patto di amarla. Moltissimo.

di Vincenzo Mazzaccaro