Sembra il giardino dell’Eden la descrizione della comune con cui si apre L’amore di Màrja, secondo lungometraggio della regista italo-finlandese Anne Riitta Ciccone. E Màrja sembra un’apparizione angelica che abita questo luogo felice, pieno di pace e di speranza. Una comunità di hippies uniti dalle stesse idee e gli stessi sogni, che non si fermano di fronte alle diversità culturali, che comunicano benissimo pur parlando lingue diverse, che fanno crescere i figli all’aria aperta e in armonia con se stessi e il mondo che li circonda. Si guarda lo schermo e si ha voglia di sperare che tutto questo non sia finito, che ci sia ancora sulla terra qualcuno che spera come speravano loro, in questo periodo in cui anche noi abbiamo tanto bisogno di pace. Si prosegue e il film prende un’altra direzione: Màrja, Fortunato e le loro due bambine si trasferiscono in Sicilia, al paese dove è nato lui, vanno a stare dai nonni, in un mondo completamente diverso, dove tutto è pubblico, dove le donne vestono abiti scuri e castigati e i capelli biondi di Màrja non solo non passano inosservati, ma sono persino visti con occhi tutt’altro che bonari. Ci si immedesima ancora nella giovane donna a cui inizia a mancare l’aria, si ha voglia di suggerirle di scappare da quel mondo in cui la fine della guerra in Vietnam non conta niente rispetto alla nipote che fa i capricci per un piatto di pasta, in cui sorridere o danzare è fonte di vergogna per l’intera famiglia. Màrja cambia, la vediamo a poco a poco sfiorire e spegnersi, destino comune a molte donne, a molte madri e mogli infelici, chiuse a vita in una casa per non rinunciare all’amore.

Ma realizzare un film troppo autobiografico è rischioso anche per i più grandi autori, figuriamoci per una giovane senza il dono della sintesi e con pochissima esperienza alle spalle. Gli episodi peggiori sono trattati con estrema gratuità, i personaggi sono mal delineati, non si riesce a provare simpatia per nessuno di essi: è la vita in bianco e nero di una famiglia, sempre uguale, sempre peggio, che non si trasforma mai in technicolor. È un racconto becero, piatto, anche quando Màrja trova la sua via di riscatto, di ribellione, attraverso la figlia, attraverso la volontà di non farla spegnere come lei. Le emozioni non decollano e le vicende non subiscono picchi, nemmeno quando Alice finisce in ospedale, nemmeno quando fugge di casa. La stupidità impera anche quando il ragazzo di Sonia mette le mani addosso a madre e figlia. Ricalcare un pezzo di realtà non è realismo, i fatti raccontati senza filtro, senza buoni attori o buone battute non fanno un buon film. Fa eccezione la bella e brava Laura Malmivaara che pone la sua esperienza al servizio di questo film piccolo nel budget come nei risultati, un’attrice che non ha più bisogno di dimostrare il suo talento, ma la cui recitazione viene menomata da brutte inquadrature, pessima regia e battute reiterate senza molto senso. Peccato.

di Federica Aliano