Osservando alcuni prodotti cinematografici, si ha netta l’impressione che la fabbrica di sogni hollywoodiana sia fortemente in crisi. Quando poi ci si trova di fronte all’ennesimo remake di un film cul, trasformato dalla visione attuale in una esperienza mediocre e snaturalizzata, la convinzione si fa ancora più tangibile. Che a volte non si riesca a produrre una sceneggiatura originale valida è già sconfortante di suo, ma che non sia possibile realizzare qualche cosa di degno su una base di scrittura già esistente è veramente frustrante. Ed è così che i così detti autori hanno ritenuto di poter tranquillamente rimaneggiare The Wicker Man, pellicola uscita nel 1973 che portava in se gli elementi fondamentali di una trasformazione sociale profonda e rivoluzionaria, per riproporla come un simil trhiller scarsamente credibile ed a tratti ridicolo. Sorvolando sulla scelta di un Nicolas Cage inflazionato e dalla monocorde interpretazione, il danno maggiore apportato all’originale è stato proprio quello d’imporre un’attualità incapace di introdurre nuovi elementi caratterizzanti, eliminando ogni traccia di ciò che aveva reso degno di nota l’originale. Per comprendere meglio addentriamoci in un confronto più particolareggiato tra le due pellicole. La versione attuale di Neil LaBute concentra l’attenzione sulla figura di Edward Malus, agente di polizia che, dopo la misteriosa morte di una bambina in un incidente di macchina, riceve l’inaspettata richiesta d’aiuto da parte di una sua ex per indagare sulla scomparsa della piccola Rowan ( praticamente identica alla bambina che ha visto bruciare nella macchina). Recatosi a Summers Isle, un isola del Pacifico, scoprirà che la donna vive all’interno di una comunità pagana dedita a strane ed insolite ritualità.

Partendo proprio dall’intreccio si nota come LaBute cambia il centro stesso della vicenda, affidando al visitatore il ruolo primario, mentre nella versione originale di Roin Hardy l’attenzione era concentrata tutta su Cristopher Lee, il capo della comunita pagana. Un cambiamento che non rappresenta solamente una scelta formale innocua , ma muta profondamente il senso stesso della narrazione e dell’atmosfera. In questo modo la costruzione e la descrizione del mondo pagano si fa più rarefatta ed inconsistente, assomigliando più ad una comunità bucolica e dichiaratamente femminista ( Lee è stato sostituito Ellen Burstyn ), priva di quel sentore di libertà etica e morale che aveva acquisito negli anni della rivoluzione sessuale. Rispetto alle sperimentazioni cinematografiche di quegli anni, il cinema americano dell’era Bush, sembra essere tornato ad essere politicamente corretto. Dunque al bando qualsiasi riferimento sessuale proveniente dall’originale, quel senso di comunanza e liberazione che nella trasgressione trovava anche un denominatore comune. In un quadro del genere, tra giardini colmi d’api ed una processione mascherata fino alla fine più simile ad una parata carnevalesca che ad un rito omicida, la suspanse ne risulta profondamente compromessa. In un film all’interno del quale i pochi momenti di tensione e di brivido sono affidati in modo particolare allo sguardo gelido ed indagatore della Burstyn, notare anche una sostanziale mancanza di originalità attraverso il ricalcare lo stile di altre pellicole ( una fra tutte The Village di Shyamalan), è veramente troppo.

di Tiziana Morganti