Non accade così frequentemente che un film riesca a suscitare così diverse sensazioni da dividere in due nette correnti di pensiero i giudizi espressi. Non succede soprattutto per un’opera che sembra realizzata nella più classica tradizione narrativa incentrata a prima vista sull’ovvio disfacimento di una coppia, ma realizzata con tale modernità da rendere straordinariamente universale il concetto stesso di allontanamento e di mancanza di amore. Certo non ci troviamo di fronte ad una vicenda facilmente seguibile, a cui è possibile avvicinarsi a cuor leggero senza avere la consapevolezza di quanto sia necessaria una lucidità ed una attenzione mentale, ma è pur vero che, anche se alcuni interrogativi permangono, nulla cancella la necessità di comprendere ed analizzare fin a trovarsi avvolti e coinvolti nella più tradizionale ed allo stesso tempo innovativa fine di un amore. Dunque cos’è che esattamente così efficace da rendere Gabrielle di Patrice Chéreau oggetto di tanto amore ed odio senza vie di mezzo? Per assurdo è possibile identificare come causa di entrambi gli atteggiamenti gli stessi identici elementi, come per dire quanto realmente universale possa essere la lettura cinematografica. Tratto da un racconto di Joseph Conrad, Le Retour, pubblicato in Francia da Gallimard, la trasposizione cinematografica dell’allontanamento corporeo e sentimentale di due coniugi dell’alta borghesia dell’inizio del Novecento prende forza e pone le sue basi su dei punti fondamentali quali la realizzazione registica e la particolarità narrativa.

Due caratteristiche che si fondono e che necessitano l’una dell’altra perché si raggiunga non solo il pathos voluto ma si delinei chiaramente il punto di vista scelto e privilegiato. Se Conrad basò l’intera vicenda osservata da una prospettiva puramente maschile, relegando la donna ad un ruolo assolutamente marginale, Chereau ha donato anima e azioni ad un personaggio femminile che, nella contrapposizione delle personalità e nella nuova presa di coscienza, risulta assolutamente necessario. Ma affinché la psicologia ed i tormenti dell’anima di fronte alla consapevolezza del non amore riescano a salire in superficie evitando il già visto ed una certa retorica, Chereau ha utilizzato tutti i mezzi cinematografici a sua disposizione. Impossibile non notare l’armonioso contrasto creato tra un ambiente chiuso di un lussuoso appartamento, la riproduzione fedele di una vita composta da ricevimenti, salotti e cameriere pronte a soddisfare ogni necessità e la modernità di un linguaggio che frantuma improvvisamente il passato per condurci verso il presente. «Mi è insopportabile l’idea di avere il tuo sperma dentro di me» dice Isabelle Huppert compostamente racchiusa nel suo abito austero ad uno sconcertato ed improvvisamente risvegliato Pascal Greggory. Parole certo atipiche per il senso del pudore che l’epoca richiederebbe ma che come niente altro riportano con immediatezza dall’invisibilità alla corporeità.

Ciò che salta agli occhi dunque con maggior chiarezza è la crisi e la dissoluzione, la presa di coscienza egoistica che diviene ancor più dolorosa del tradimento e dell’abbandono. Se poi tutto questo è realizzato attraverso l’utilizzo di tecniche particolari, quali un inserimento del bianco e nero alternato al colore, quasi a voler ulteriormente sottolineare il continuo passaggio tra il passato dell’ambiente circostante e l’universalità delle azioni, e delle scritte che giganteggiano sullo schermo a dimostrare come le parole siano il fulcro stesso dell’intera vicenda, si comprende come la tradizione possa essere rinnovata senza venire snaturata. Parlato fino all’inverosimile con un ritmo quasi teatrale del teatro stesso, forse, il film di Chereau racchiude tutto e nulla ma, in modo particolare esalta una drammaticità sussurrata, mai spinta verso l’eccesso, anche nei momenti di esplosione, da parte di due protagonisti che hanno saputo rivestire di carne ed ossa due anime in caduta libera di fronte alla dissoluzione dei loro mondi. Tutto questo è Gabrielle e, probabilmente, molto di più. A voi il prossimo giudizio.

di Tiziana Morganti