La fabbrica cinematografica di Hollywood ha costruito sulla coppia in crisi, la guerra dei sessi e gli improvvisi quanto attesi ritorni di fiamma un intero genere. Partendo dalla così detta “screwball comedy” e passando per la “sophisticated” da sempre si è utilizzata la delicata e pericolosa materia matrimoniale per cercare di cogliere il lato tragicomico del confronto/scontro tra maschile e femminile. Dunque, nonostante le dichiarazioni di Maurizio Costanzo, autore del soggetto di Voce del verbo amore, nulla di nuovo sotto il sole per l’ultimo film di Andrea Manni ( Il fuggiasco). Possiamo cambiare la definizione “commedia del rimatrimonio” ( riferibile a film storici come SusannaScandalo a FiladelfiaLa costola di Adamo) con “commedia del riprovarci” ( coniato dallo stesso Costanzo durante la conferenza stampa) ma il senso non cambia poi molto. Ci troviamo comunque a seguire e comprendere le evoluzioni emotivo/sentimentali di una coppia sull’orlo della separazione, non così convinta della decisione presa ma predisposta a riversare sull’altro tutta la momentanea frustrazione. Unica differenza l’atmosfera ed i tempi. Veloce e dai ritmi comici ben cadenzati la commedia americana, più riflessiva e lenta l’interfaccia nostrana. Se da una parte negli Stati Uniti il divorzio si ottiene facilmente, la burocrazia italiana per forza di cose induce alla revisione dei fatti fino anche al pentimento ed al ritorno sotto il famoso tetto coniugale. A rimetterci, cinematograficamente parlando, un certo romanticismo d’altri tempi che tanto dona al genere. Cary Grant e Katharine Hepburn tornano ad innamorarsi perdutamente in Scandalo a Philadelphia, mentre Giorgio Pasotti e Stefania Rocca, dopo aver gustato l’emozione di un rapporto “free”, aver perso un figlio nel supermercato del rimorchio ed essersi urlati addosso per una buona ora decidono che è arrivata l’ora di tornare insieme. Il tutto ha il gusto un po’ insipido dell’abitudine e del timore di una libertà un po’ frastornante a cui si rinuncia di fronte ad una macchia d’umidità sul soffitto. Una regia piuttosto classica e didascalica, un ritmo narrativo che non induce sempre al coinvolgimento ed un certo generico isterismo che, dopo la prima mezz’ora, irrita più che caratterizzare il personaggio completano il paesaggio di un film lontano dall’essere indimenticabile. Fatta eccezione per la strepitosa Cecilia Dazzi, a cui è affidato il compito di dar voce alle insofferenze emotive più vere grazie anche ad una sana dose di consapevole autoironia, il resto del cast non riesce ad aggiungere nulla ad una storia che viaggia anche troppo sulla perfetta ed eccessiva riconoscibilità del quotidiano.

di Tiziana Morganti