Romantico, ironico, avventuroso e drammatico: questo è Terminal. Steven Spielberg dimostra, ancora una volta, di conoscere perfettamente i segreti della cinematografia classica e moderna, tanto da orchestrare le caratteristiche di ogni genere con l’attenzione e la sensibilità capace di produrre un armonia. L’escamotage narrativo prende vita da una disavventura vissuta da un turista iraniano rimasto bloccato nell’aeroporto di Parigi, una notizia di cronaca che il regista, vincitore di tre premi Oscar, afferra e stravolge, regalando a una vicenda di incapacità burocratica la profondità e l’incongruenza di una umanità, attraverso il volto di Victor Navorski (Tom Hanks), un ingenuo apolide dell’Est, elemento puro ed estraneo attraverso il quale è possibile realizzare una nitida e onesta fotografia della società statunitense concentrata e riprodotta all’interno della limitata zona di un terminal aeroportuale. Un microcosmo dove la cultura americana, quella moderna e attuale, composta dalle più varie commistioni etniche, si esprime in modo più concreto che non all’esterno di una porta a vetri, dove si estende una New York chiusa ad un sogno custodito all’interno di un barattolo. L’atmosfera è quella leggera e frizzante che Spielberg ha già utilizzato per la commedia Prova a prendermi, ma lo sguardo è quello acuto ed insinuante di chi ha intenzione di giocare su vari livelli interpretativi. Terminal è una di quelle rare ed incredibili avventure cinematografiche capaci di parlare ad un pubblico assolutamente vasto ed universale, un percorso all’interno del quale è possibile, al di là dell’evidente, ritrovare ed estrapolare significati e percorsi di comprensione del tutto diversi.

Dal racconto di un’umanità straniera, disorientata ma comunque capace di ricostruire un universo parallelo a quello esterno, passando per una storia d’amore sfiorata ed illuminata dalle luci di uno “zuccheroso” romanticismo anni ’40, fino ad addentrarsi all’interno di una critica sociale che si concentra su di un’assenza d’equilibrio, nel rapporto costituitosi tra chi rappresenta il potere e coloro che gravitano nel limbo degli “inaccettabili”. Un percorso compiuto attraverso la fisicità di un Tom Hanks che, vestiti i panni di una ingenuità disarmante, torna a rappresentare un Forrest Gump capace di vivere un’esistenza al di fuori dei giochi di potere, non comprendendo le divisioni sociali ed osservando l’esterno con l’inesperienza e la freschezza di chi crede che il mondo si riassuma in un semplice 50 percento di possibilità. Ma è anche una riflessione sull’immobilità. Una carrellata lungo i vari livelli di staticità: quello fisico di Viktor e quello sentimentale di Amelia (Catherine Zeta-Jones), capace di riportare sullo schermo la frizzante interpretazione di un personaggio della commedia anni ’50, senza dimenticare di regalare visibilità a quell’emigrazione portoricana ed orientale che vive parlando sottovoce e camminando a testa bassa pur di non attirare le attenzioni dell’inflessibilità governativa. Dunque un sogno americano che, pur sporcandosi e perdendo la lucentezza del passato, riesce comunque ad imporsi almeno come teatro di una vicenda che ha conquistato l’attenzione di Spielberg per la sua capacità di scatenare emozioni, d’indurre al riso e al pianto cavalcando, probabilmente, un sentimentalismo fuori moda all’interno di una Hollywood votata all’action e agli effetti speciali, ma comunque ancora capace di esercitare il suo fascino.

di Tiziana Morganti