Per affrontare The Black Dahlia si potrebbe partire dal romanzo omonimo di James Ellroy scoprendone similitudini e differenze che segnerebbero sicuramente dei punti di svantaggio a carico dell’opera cinematografica, oppure si potrebbe analizzare il tutto da un’ ottica più storica e sociologica affrontando un fatto di cronaca eclatante che per ben 60 anni è stato la segreta ossessione di giornalisti, scrittori e sceneggiatori. In fin dei conti l’ultima fatica di Brian De Palma potrebbe essere osservata, sezionata e se vogliamo anche criticata da diversi punti di vista a seconda degli elementi presi come presupposto, eppure tutto appare riduttivo, se non aleatorio di fronte ad un film capace di vivere pienamente lontano da qualsiasi riferimento letterario o reale. Il 15 gennaio 1947 il corpo di Elizabeth Short, aspirante attrice, viene ritrovato in un luogo abbandonato a Los Angeles. Era nudo, tagliato in due all’altezza della vita, gli organi interni erano stati rimossi ed il sangue era stato fatto defluire. Un crimine talmente orrendo che le foto non vennero mai mostrate al pubblico. Fra false accuse e confessioni quello di Betty fu uno degli omicidi più raccapriccianti rimasti insoluti nella storia della città di Los Angeles. Avvalendosi della sua indiscussa esperienza, facendo forza su di una maniacale attenzione per i particolari, De Palma costruisce una vicenda che parte da un mero fatto di cronaca e si trasforma in una vera e propria ossessione, imbattendosi in una realtà spesso sfaccettata ed ambigua capace di sedurre ancora con maggiore intensità. Partendo dagli elementi classici del noir o poliziesco americano (due colleghi che affrontano il medesimo caso, l’immagine del poliziotto corrotto, la femme fatale che induce alla perdizione) si appropria di alcune caratteristiche tipiche dell’hard boiled della letteratura di Ellroy caratterizzata da un certo realismo sanguinolento, per poi percorrere una strada rappresentativa e narrativa del tutto personale. Richiamando alcune atmosfere già testate ne Gli intoccabili, questa volta De Palma si lascia andare ad una visione meno pura, idealistica ma probabilmente più vera e riconoscibile dell’eroe.

In una continua opposizione tra bene e male, spostando i confini tra questi due emisferi che diventano condizione dell’anima, la tipologia stessa dell’onestà e della giustizia viene continuamente sporcata da quelli che sono gli eccessi dettati dalle umane esigenze. Una struttura narrativa che aiuta a sorvolare quasi con leggerezza sulle diversità che non lo arricchiscono ma nemmeno lo impoveriscono dalla versione originale di Ellroy. Semplicemente lo identificano come altro, creatura che si nutre di una individualità orchestrata con particolare attenzione. Dalla perfetta riproduzione dei costumi, all’attenta eppure mai manieristica ripetizione di gesti, sguardi e portamento per terminare con la più imponente ed artisticamente riuscita scenografia firmata dal premio Oscar Dante Ferretti tutto sembra essere perfettamente sincronizzato e concatenato per offrire una naturalezza che si ottiene solo attraverso una maniacale preparazione. Lungo i marciapiedi di una America anni Cinquanta dove la violenza fisica e dell’animo sembra abbracciare e schiacciare con uguale veemenza amore, passione, amicizia, lealtà e futili sogni di gloria, i personaggi di questo dramma dell’onestà s’incamminano consci della loro inevitabile corporeità destinata ad evidenziare ed accentuare sofferenza ed errori. Josh Hartnett, Scarlett Johansson, Aaron Eckhart e Hilary Swank (incredibile ed inaspettata nella sua interpretazione seducente dopo il ruolo di Million Dollar Baby) compongono un coro di solisti armoniosamente scelto ed amalgamato, a cui De Palma ha affidato non solo lo svolgimento di una vicenda visiva e formale, ma soprattutto la rappresentazione di una umana lotta dalle ataviche origini e dall’inevitabile sconfitta. E non ha alcuna importanza evidenziare e soffermarsi sulla scelta più o meno opportuna di un finale totalmente dissimile da quello voluto da Ellroy. In realtà nessuno potrà mai scrivere il vero epilogo di una vicenda che racchiude nella sua stessa natura il germe del mistero contaminato da quello della fantasia.

di Tiziana Morganti